[È venerdì] Il finale dell'intelligenza artificiale insegnato da Blade Runner
Quasi sempre la fantascienza sbaglia, se non leggi bene
Oggi l’intersezione tra soldi, consumismi e persone, oggetto di accertamenti frequenti di questa newsletter, riguarda l’intelligenza artificiale e un vecchio film di culto (che mi ha dato la forza per scriverne).
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Il 10 luglio – che è giovedì prossimo – presento il libro giallo a Milano, alla Libreria del Convegno in via Lomellina 33. Ci si vede alle 19 – ci sarà un gadget per chi c’è, dopotutto un po’ si parla anche di marketing.
Ma essendo un dialogo con Matteo Bordone, chissà dove andremo a parare.
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Il fattore replicante
Quanto mi piaceva Blade Runner. Lo vidi per la prima volta a una matinée scolastica: non piacque a nessuno, nella mia classe. Del resto, avevamo forse quattordici anni o giù di lì.
Ogni tanto lo riguardo. Ci sono pochissimi film di cui mantengo questa abitudine, e Blade Runner (quello del 1982) è il primo di questi. Un altro è The Untouchables, ma forse perché mi commuovo a vedere il procuratore Eliot Ness che ricorda ad Al Capone che la partita non è finita finché non è finita, all’incirca. Il terzo è Point Break perché nella scena finale Keanu Reeves lanciava il distintivo nelle onde del Pacifico come io lanciavo i sassi piatti nello stagno dietro casa mia.
È però la prima volta che rivedo Blade Runner da quando c’è la AI. Per chi non lo conosce, un recappone: il futuro è di terra inquinata, cieli affumicati e brumosi, con colonie extramondo di vago sentore elonmuskiano. In tutto questo, animali e umani sono stati duplicati (i famigerati replicanti) in modo praticamente indistinguibile da quelli originali (e hanno sostituito quelli “naturali”, troppo cari). Il tutto si svolge in una Los Angeles distopica del 2019, in cui Rick Deckard (Harrison Ford) viene richiamato in servizio per “ritirare” quattro replicanti fuggiti da una colonia extraterrestre. I replicanti, guidati da Roy Batty (Rutger Hauer), cercano di prolungare la loro breve durata di vita. (Wikipedia)
Un tempo non lontano da oggi, i replicanti vivevano solo nella fantascienza. Sì, sì, bello, ma mica è vero, ci dicevamo. Ora invece è chiaro che la AI replicherà tutto (non passa giorno che una nuova fotocopiatrice di qualcosa fatta con la AI ci eviti di pensare, lavorare, giudicare, fotografare, scrivere, suonare1, influencerizzare, creatorizzare, fare il CEO2). Per carità, in molti casi fa pure meglio.
Ah, ma la nostra intelligenza generale è salva, si dice, non è mica replicabile facilmente. L' intelligenza artificiale forte o intelligenza artificiale generale (in sigla AGI, dall'inglese “artificial general intelligence”) è la capacità di un agente intelligente di apprendere e capire un qualsiasi compito intellettuale che può imparare un essere umano, dice Wikipedia.
Ci riuscirà? Forse no. Intelligenza generale umana che però, a sensazione personale, non ha poi benchmark altissimi.
Ma non è per motivi tecnici che non succederà: sarà perché non ha un modello di business. Dove Blade Runner sbagliava (perché tutta la fantascienza sbaglia, per inerzia, nell’accelerare in traiettoria retta l’esistente di un tempo, come aumentare la grandezza degli schermi dei LED pubblicitari attaccati ai palazzi, far volare le auto, ecc. – è quello che chiamo fattore Jetsons) è che la AI non vuole replicanti in carne ed ossa, il corrispettivo umano della pecora Dolly.
Perché il corpo duplicato non serve a nulla, è solo un’altra bocca da sfamare, non è efficiente, metti che poi gli devi pagare perfino un ciclo di sedute su Serenis. E anche i robottini umanoidi e i cani canoidi servono solo per far paura ai bambini alle fiere (e costano di più dei lavoratori a basso prezzo che possiamo importare, se solo lo vogliamo, e comunque una macchina mono-scopo sarà sempre più efficiente per esempio a tagliare piastrelle di gres porcellanato). L’unica cosa (relativa, eh) di valore da duplicare è quello che produciamo di intellettuale, in senso stretto.
E ok, finora abbiamo potuto sempre sostenenere, come ho detto un paio di mesi fa all’evento Videns Festival a Firenze, che questa newsletter, se fosse prodotta dalla AI, sarebbe come un Gianluca comprato su Temu.
Ma per quanto e per chi? Sinceramente non credo che il vantaggio su Temu durerà per sempre: alla fine chi capisce la differenza con l’originale, che si restringe sempre più, è una parte minoritaria dell’audience. E comunque Temu, ve lo ricordo, vende tantissimo, perché il minor prezzo vince sempre, o quasi.
Tocca capire qual è il valore che ci rimane, come persone, in un’epoca in cui anche il pensiero può essere duplicato. Chi sa davvero chi siamo, chi ci sceglie non per il prezzo, ma perché riconosce la differenza? È con queste domande in mente che ho rivisto Blade Runner.
In Blade Runner serviva un test (Voight-Kampff) per distinguere un replicante da un essere umano. Analogamente, oggi ci sono strumenti per capire se un post sui social o una tesi sia stato scritto da una persona in carne e ossa o generato dall’AI. Funzionano? Boh, non ne sarei sicuro.
Ma a che serve poi? Che ci importa chi ha scritto, cantato, fatto qualcosa posto che sia corretto e che funzioni per noi? Nel 99% dei casi, nulla. Un cane artificiale è sempre un cane, per chi gli fa da padrone? La risposta è semplicemente sì.
In Blade Runner, il test di autenticità viene eseguito solo quando il potere è messo in discussione dai replicanti che sfuggono alla schiavitù della loro programmazione, e non perché i prodotti artificiali siano meno efficienti degli uomini, anzi.
Inoltre, la nostra percezione non ci aiuta nel definire il valore attribuito dagli altri alle cose che produciamo. Pensiamo di essere sgamati quando facciamo scrivere la AI al posto nostro, ma non succede mai. Perché solo noi ne sentiamo la differenza, che è più residente in come si è formato quel contenuto nella nostra testa, che nel come si presenta all’esterno. Un po’ un effetto Ikea intellettuale3.
Lo stesso vale per i brand, il content aziendale, che essendo impersonale by design è ancora più facile da mimetizzare artificialmente. E forse tra qualche anno o forse meno, non ci faremmo nemmeno caso, pur riconoscendolo, sarà normale così. Ci saremo abituati alle classiche sintassi AIose come “Non è tanto un xxyyy: è un vero e proprio zxxxx” (basta leggere il libro AI per eccellezza, Ipnocrazia, edito (?) da Tlon, per rendersene conto) o ai punti elenco con tante inutili emoji, o al riassuntino finale moraleggiante.
Certo, il clima sembra diverso: le persone dicono di odiare la AI – salvo quando sono loro ad usarla. Quindi nemmeno i brand dovrebbero usarla, a stare a sentire i sondaggi tra i consumatori. I consumatori vogliono sempre la botte piena e il coniuge ubriaco, si sa. Di solito, alla fine scelgono la botte piena.
C’è un altro fattore però. In Blade Runner a nessuno importa funzionalmente se un animale sia artificiale o naturale, ma l’origine è un valore in sé, perché un animale naturale è introvabile: come l’oro che vale in quanto scarso, non perché sia un materiale così affascinante. C’è qualcosa di assurdamente irrazionale da sempre nell’umanità, il doversi circondare di cose costose disponibili in piccole quantità, che valgono solo in quanto hanno questa caratteristica.
È simile al concetto del lusso: una borsa da diecimila euro è meglio di quella da cento? Forse sì. Vale cento volte di più? Sicuramente no.
Il not made by AI sarà un bene di lusso. Prima di montarci la testa, però, attenzione: il lusso è per pochissimi, e per brand affermati e storici, e non c’è la prova che funzioni con i prodotti dell’ingegno. È testato solo con assurde borsette e scarpe. E ancora: il lusso funziona finché qualcuno ci crede. Se smettiamo di crederci la borsa da diecimila euro ne vale di nuovo cento.
Oltre alla scarsità (percepita o reale), il punto della ricerca (che sia brand o altro non importa) è trovare quei pochi che sono disponibili a capire e valorizzare la nostra umanità (vera o percepita).
L’agente Deckard incaricato di sterminare i replicanti si innamora inevitabilmente di una tizia, che tutte le varie versioni del film lasciano presagire essere anch’essa una replica (di lusso, ovviamente, ma sempre replica, anche se impiantata di veri ricordi umani di altri). Niente di nuovo in sé, di gente che si innamora di computer vari ce n’è stata prima e dopo, a Hollywood.
Ma il concetto (romantico o usabile nel marketing?) qui è che Deckard la ama in modo irrazionale, per quello che è stato o sarà, non per quello che rappresenterebbe per tutti gli altri (una bella donna replicante).
È lui che la vede diversa, non lei ad esserlo.
Traslato: è il corrispettivo di quello che ha fatto per noi un brand o una persona, e quindi come lo pensiamo: non come funziona o come è stato costruito in generale un servizio, o un prodotto.
Quanto tempo ha speso per noi, con noi, su di noi.
In un’economia in cui tutto è replicabile a costo zero in tempo reale, il tempo speso (perso?) con qualcosa o qualcuno è l’unico indicatore di cura (e quindi di percezione di valore dalla parte opposta).
Potrà la AI replicare/distruggere tutto il marketing degli ultimi cinquanta anni per far rimanere in piedi nuovi e pochi rapporti di cura tra brand e persone? Non lo so, e purtroppo anche il finale aperto di Blade Runner non ce lo dice.
In Reddit c’è un post che si ripete ogni sei mesi: “Is Deckard a replicant?” e un utente inevitabilmente risponde “Doesn’t matter”. E se anche i brand fossero, alla fine, dei replicanti? E se questo post fosse stato scritto da una AI?
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Adesso qualcuno penserebbe che i 5 euro te li potrebbe dare il negoziante, e costerebbe meno di Google.
ilmarketinginsegnatodainegozianti.info è un progetto collettivo di gonzo journalism a cui puoi contribuire senza pietà. No screenshot o inoltri dai social: solo foto tue.
Segnalazioni
La settimana scorsa nella newsletter si è parlato di decaloghi di comunicazione per piccole organizzazioni sostenibili e solidali.
È uscita una mia nuova opinione per il magazine Tendenze di GS1 e anche quella parla di Intelligenza Artificiale, ma tratta della fine del web delle pagine, e l’inizio del web delle informazioni (e delle domande).
Uso da anni Readwise per salvare abstract e per leggere pezzi lunghi. Ora che Pocket chiude, ve lo consiglio. Le mie ultime sottolineature sono qui.
That’s all folks!
Se ti è piaciuta, inoltrala al tuo team gridando REPLICANTI!.
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Ci leggiamo venerdì prossimo,
gluca
Grazie a Daniela Bollini per la solita paziente correzione e a Cristina Portolano per le bellissime grafiche di questa newsletter (e per il gadget artistico per chi verrà alla presentazione del libro a Milano. Perdonami Cri per averlo chiamato gadget).
Quiz: la risposta la so già, siete in azienda per la stragrande parte.
Forse questa band non esiste - Il Post
Non è il tuo capo, ma parla come lui - Antonio Bellu
L'effetto IKEA è un fenomeno psicologico in cui le persone tendono ad attribuire un valore sproporzionatamente alto ai prodotti che hanno parzialmente creato da sé, come i mobili che richiedono il montaggio.
Come sempre, analisi interessanti.
Dovrei riguardare Blade Runner, che è uno di quei film che ho sempre visto a pezzi (lo so, mea culpa); in compenso ho visto e rivisto Terminator 2... e anche lì c'è poco da sorridere.
È un discorso molto interessante. Mi chiedo se la fisicità di una IA davvero non serva, se non sia monetizzabile. Penso a uno dei fattori trainanti di molti settori economici, ovvero il sesso. Ma anche i sentimenti, visto che già ora tanti dialogano con le IA come se fossero amici/terapeuti.