[È venerdì] L'inutile link nel primo commento, su Linkedin
E quali insegnamenti generali ne possiamo trarre
Pare che Musk abbia licenziato dopo pochi mesi tutto l’ufficio marketing di Tesla. In una sua risposta su X, ha detto “facevano pubblicità come quella di una qualsiasi auto”. Che è stato, come chi legge qui sa, il modo per essere BMW, Mercedes o anche solo Lexus. E se Tesla dovesse proprio sembrare, per arrivare al vero mercato, un’auto “normale”?
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Click e impression: capra o cavoli? O no?
Ok, in realtà a me del link nel primo commento, in realtà, interessa veramente poco, e spesso non è inutile, però mi piaceva il titolo ad effetto. Per chi frequenta l’online, questo link nel primo commento! è stato un virus, una pratica che velocemente ha preso piede ovunque (c’è anche su Facebook, e in Twitter c’è quella cosa che odio, il threading, cioè una serie di pensierini da scuola elementare che avrebbero potuto essere un post, e invece sono concatenati tra loro, e spesso nell’ultimo c’è il link, ma questa è leggermente un’altra storia).
Ovviamente ha preso piede perché siamo sempre alla ricerca della falla nell’algoritmo, del trucco che sappiamo solo noi di cui in California non si sono ancora accorti. Dell’anello che non tiene, direbbe Montale. E questo apparente buco nell’algoritmo, mettere il link nel primo commento e non nel corpo del post, si dice, ed evidentemente si ha ragione di credere, «funziona».
Ora, una cosa che mi diverte molto come passatempo è creare fogli di calcolo, ognuno ha i suoi passatempi, e così mi sono messo a inserire i dati dei miei post su LinkedIn per cercare – appunto – se esista davvero l’anello che non tiene. Intendo i post (gli unici che faccio) in cui rilancio la newsletter, quella che state leggendo, appunto. A volte il link lo metto direttamente nel post, in rari casi ho usato il link nel primo commento anche io, a scopo scientifico, per usare un parolone.
Per allargare un po’ il discorso dal micro-esempio alla macro-strategia, però, mi piace citare i maestri Binet e Field. Quelli dell’entrambismo1 che ho citato spesso.
(Sì, è un odiato threading di Twitter, ironia della sorte.)
Detto diversamente: non esiste qualcosa che "funziona" in assoluto. Funziona (se funziona) rispetto a un obiettivo. E più obiettivi vogliamo fargli ottenere («funzionare per»), meno sarà efficiente il tutto.
Il tragico caso del link nel primo commento non fa eccezione. Non funziona, almeno non su tutto. In California lo sanno benissimo – del resto una volta scrissi «C’è qualcuno che può fregare Google, ma statisticamente non sei tu». Ecco, figuriamoci se possiamo «fregare» LinkedIn.
Pubblicando un post su LinkedIn, in effetti, abbiamo due possibili obiettivi: cercare di diventare “virali” e massimizzare quindi le impression, o andare sul sicuro, creare un post con il link già nel corpo, e massimizzare la consideration e la conversione (facendo uscire le persone da LinkedIn con il clic), a scapito di una minore viralità. Il test è dunque: può la prima strategia, tramite il link nel primo commento, ottenere anche click in quantità simile o migliore? Posso quindi ottenere capra e cavoli?
La prima strategia massimizza le impression, anche se queste sono in ultima analisi un calcolatore di tempi di scroll inferiori al secondo (cosa misuriamo fa la differenza: vedi il mio post sui numeri della settimana scorsa2). L’opzione potrebbe avere senso in quanto quel numero potrebbe a) consentirci di “rivenderci” come influencer a terzi che a loro volta non si fanno troppe domande sul significato di quel numero o b) far comparire il nostro profilo davanti a più occhi possibili, cosa utile per trovare lavoro: più gente clicca sul nostro nome, più vede il CV, più possibilità di essere valutati, più possibilità di essere assunti, ecc.
Questa tattica ha fatto nascere mostri come il linkedinese, una specie di poesia in prosa in cui si susseguono brevi frasi con domande frequenti al lettore ed emoji. Questa tattica non prevede link nel corpo del post, perché sia l’autore che LinkedIn (vale però per tutti i social) hanno tutto l’interesse a mantenere il lettore sulla piattaforma stessa, e lasciare reaction invece che cliccare su di un link e perdersi così nell’open web.
Però, e qui vengo al punto, per salvare capra e cavoli, spesso si mette e si dice «il link è nel primo commento». Pensando forse che le persone abbiano comunque la possibilità di cliccarlo. Chi di voi ha studiato bene sa che oggi la friction è tutto, e questo probabilmente non succederà – almeno non in quantità apprezzabile. Ma qual è questa quantità? Lo vediamo nel foglio di calcolo, ordinato per sottoscrizioni portate alla newsletter.
Se volete giocarci, lo clonate da qui.
Detto con Binet: questa modalità «virale» fa awareness (più che branding, direi). Ma non fa activation, e nemmeno consideration. Non serve avere tante impression, se il numero di click sul primo commento crolla. LinkedIn ci conferma che «nessun pasto è gratis», e dobbiamo scegliere: o il primo, o il secondo. Non è un all-you-can-eat in ogni caso.
Nel mio caso considero obiettivo di consideration il click sul link di lettura della newsletter, e la activation la sottoscrizione della newsletter stessa, su Substack.
Ora, i dati sono un po’ disomogenei in quanto LinkedIn non pubblica i click sui post in organico, ma solo le impression e quindi devo incrociarli con i referral di Substack (da dove arriva chi visita e chi sottoscrive).
Un problema di calcolo nasce dalle condivisioni del mio post da parte di altri: in questo caso sarò in grado di misurare solo le impression del mio post ma Substack mi indicherà tutti i click da LinkedIn, producendo quindi, come vedrete, delle anomalie in termini di CTR. Ma anche queste anomalie ci danno un insight interessante.
La gran parte delle iscrizioni alla newsletter sono venute da post con il link direttamente nel corpo (body), e soprattutto dalle “anomalie”, post diventati per qualche motivi virali – probabilmente perché condivisi da altri – nonostante la presenza del link. Mi spiego questo rendimento in termini di click e iscrizioni con il fatto che, quando un post viene condiviso da altri, avere link nel corpo rende molto più immediato il click verso la newsletter. Un post ipercondiviso ma con il link nel primo commento non otterrebbe comunque click significativi, perché la friction di andarsi a cercare i link è alta e l’attenzione viene catturata dalla discussione nei commenti (che a sua volta «affoga» ancora di più il link nel primo commento).
Attenzione: l’interazione potrebbe comunque avere un valore per la strategia di awareness, e comunque normalmente è correlata con le impression. Questa è la classifica per impression.
Bonus: per rendere la cosa più interessante, ho cercato di dare un peso agli obiettivi – uno scorecard direbbero in McKinsey. Li trovate nell’ultima colonna. Ecco i criteri.
1 punto per ogni visualizzazione;
10 punti per ogni click;
200 punti per ogni sottoscrizione della newsletter.
(Questa è la mia «taratura obiettivi», basata sulla mia stima della «Customer Lifetime Attention».)
Non cambia molto, in realtà, rispetto alle iscrizioni pure. Notando i risultati, posso elaborare la mia teoria. Ma accetto volentieri altre interpretazioni.
È vero: le visualizzazioni dei post sono più alte se non c’è il link nel corpo del testo, ma non estremamente e non sempre (probabilmente anche perché non so scrivere bene in linkedinese, ma tant’è).
I click crollano invece sempre se inseriti nel primo commento (il click through cala del 70-80%). Se volete che le persone ci clicchino, bisogna essere fiduciosi che andrete 4x virali sulle impression. Io non lo sono.
Quindi, per riassumere:
Non ci sono tattiche furbe che funzionano per tutto – l’algoritmo non è scemo, e le piattaforme nemmeno. E c’entra anche la nostra limitata attenzione e pazienza. Come lettori, al massimo reagiamo a uno stimolo con una azione, quasi mai con due (view e clic) e ovviamente nella maggioranza con zero azioni.
Decidete in anticipo se vi serve di più awareness, consideration o activation. Un post di LinkedIn non può fare tutto e bene. Queste regole valgono per qualsiasi oggetto digitale, sponsorizzato o meno.
Un buon mix, un 60% brand e un 40% activation, come diceva Binet, è un buon punto di partenza, quantomeno per i brand aziendali. E per estensione vale anche su LinkedIn.
A me interessa molto di più una persona che si iscrive e mi legge – almeno per un po’ – che un’impression, ma questa è appunto una scelta strategica personale.
Come univoca e personalizzata deve essere sempre la strategia, del resto.
Il marketing insegnato dai negozianti
A proposito di “uno o l’altro”.
Ti ricordo che ilmarketinginsegnatodainegozianti.info è un progetto gonzo-collettivo a cui puoi contribuire senza pietà.
Segnalazioni varie
La settimana scorsa ho parlato di numeri (auto)ingannatori.
Quelli di Link si sono fidati e mi hanno affidato un avventuroso reportage dai canali televisivi oltre il 999 della smart TV, dove non osano (ancora) molti telespettatori, ma gli sponsor sì.
Parlerò di crisi reputazionali in un webinar online
Dall’archivio di sei anni fa: content è ciò che doni. Direi che non è cambiato molto.
That’s all folks!
Grazie di aver letto fin qua, di questi tempi è un miracolo.
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ciao, gluca
Grazie a Daniela Bollini per la solita paziente correzione della bozza e a Cristina Portolano per i separatori.
Quiz: c) 46% (fonte).