[È venerdì] Il dato non è scontato
Perché comunque qualcuno ha deciso il confine del fatto da misurare
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Il quiz della settimana
Lo so, è una mia fissa il tonno.
Quante persone in Italia consumano tonno in scatola, settimanalmente?
a. 50% b. 75% c. 90%
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4 dritte smart per gestire i progetti di comunicazione e consulenza
Oggi ti sveliamo 4 consigli su come gestire al meglio la tua azienda che lavora a progetti:
Delega e fa’ brillare il team: dimentica il micromanagement. Incentiva la squadra a prendersi responsabilità e guarda come crescono. È win-win: ottimizzi i processi e tutti stanno meglio.
Pianifica sul serio: basta con le maratone di lavoro! Programma le giornate basandoti sulle ore vendute per ogni progetto e non superare le 8 ore al giorno. Così eviti che il team sia sovraccarico e i progetti vadano fuori strada.
Tieni d'occhio il gioco: non aspettare la fine per scoprire che il progetto zoppica. Fai check regolari e aggiusta la mira in corsa; i progetti più tosti hanno bisogno di più attenzione.
Grandi poteri = grandi responsabilità: fai capire a tutti l'importanza di fare il timesheet e tenere aggiornate le informazioni condivise. Non solo numeri, ma dati per giocare pulito e trasparente.
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Il dato non è scontato
Ci sono due frasi che sono state un po’ le mie torri di Tolkien (NB: non so niente di Tolkien) della carriera.
In Dio abbiamo fede, tutti gli altri portino dati.
Metà dell’advertising è sprecato, solo non so quale metà.
Sono passato alla presentazione del libro di
, Quando i dati discriminano, e pensavo a quanto la marketing-sfera avesse un approccio naïf al dato, rispetto a temi “alti” come la visibilità delle minoranze nei big data o nel training delle AI e all’etica di algoritmi che decidono dove vadano soldi pubblici o chi possa essere assunto o merita un mutuo o perfino chi possa essere dichiarato colpevole.Da una parte, come dico spesso, qui nel marketing non abbiamo problemi di salvare vite o discriminare persone più di quanto la società già non faccia con il reddito, quindi in teoria ci si può permettere di sbagliare e perfino di fare esperimenti. Ma considerando tutto questo, e parlando in generale, ancora ci affidiamo davvero poco alla scienza del dato. Qui da noi, il dato a volte non lo vogliamo proprio usare perché ci fa comodo così. O lo vogliamo usare per fini propri. La terza torre/frase, l’antidoto alla prima, è infatti:
tortura i dati abbastanza a lungo e ti diranno qualunque cosa.
Noi del marketing siamo esperti nel concentrarci su cosa ci fa più comodo. O come scrive Columbro più correttamente, nel delimitare la raccolta degli stessi in modo biased. Ricordo benissimo il gerrymandering1 spazio-temporale della forza commerciale per far risultare i risultati in una certa area più che sufficienti a ottenere gli agognati bonus di fine anno. Oppure nel cosa considerare lead, tra marketing e commerciale. «Sono 100 lead!» dice il marketing. «Sì ma solo dieci buoni!» ribatte il commerciale.
Del resto il marketing vive nel capitalismo, e dunque ai suoi minimi termini non è tenuto nemmeno a essere non-discriminante, in quanto, ve lo ricordo, le aziende non sono democrazie, per quanto ci siano forme di dispotismo illuminato e di cooperative. E in più fare marketing è discriminare in continuazione, in un certo senso (segmenti ricchi vs poveri, prospect vs disinteressati, clienti migliori vs pessimi, audience ricettive e altre meno). C’è pure un paragrafo dei manuali che si chiama senza pudore «discriminazione di prezzo»: succede quando alla grande azienda fanno pagare lo stesso sito più che alla PMI. Perché se lo può permettere, o perché ne otterrà un ROI più alto, o tutte e due, vedete voi. O quando una borsa costa 100 o 1000 euro a seconda del logo sopra.
Altre discriminazioni sono più borderline con l’etica, diciamo: pensiamo alla pink tax, cioè far pagare di più lo «stesso» prodotto se in versione «femminile» (colorato di rosa, di solito). Purtroppo in questo caso io ho fede nella libertà del mercato e quindi mi chiedo perché il mercato non acquisti la versione maschile. E credo fermamente che la giustizia – qualunque cosa significhi – passi soprattutto per l’equità economica fornita dalla politica anziché da quella fornita gentilmente dalle aziende. Ma non mi voglio ficcare in questo ginepraio.
Ci sono eccezioni, e pure estreme, ovviamente, all’uso blando del dato nel marketing: ricordo un’azienda in cui il figlio del proprietario aveva fatto un corso di growth hacking e misurava le (infinite) modifiche agli A/B test dell’oggetto di una newsletter, senza peraltro ottenerne una verità definitiva. Probabilmente se il proprietario avesse capito il tempo impiegato in tutte quelle misurazioni lo avrebbe rimandato a scuola, ma a ragioneria. Perché il marketing non deve essere equo, ma solo efficiente, e misurare costa.
Il marketing, rapportato all’evoluzione della scienza, è da sempre in una fase a cavallo dell’illuminismo. Ci sono ancora adesso pesanti tracce di fede tolemaica, con applicazione letterale e pedissequa delle sacre scritture kotleriane, come «trattenere un cliente esistente costa meno/rende di più che acquisirne uno nuovo». E così via.
Poi c’è una parte di marketing che segue il classico metodo di induzione: pensate alle ricerche che i grandi player di settore fanno ciclicamente, pensate a titoli e temi come «chi usa sistemi di CRM ottiene un ROI più alto del 5%». È il «tutti i cigni sono bianchi!», insomma. Non che siano sbagliati, solo che non sono mai “definitivi”.
Ci sono tentativi di studio via induzione molto interessanti (e citati anche qui spesso sotto il nome di entrambismo) su come sia possibile calcolare, in un budget di marketing, quale sia la percentuale di budget da investire in brand e quale in attivazione. Ma la raccolta e la classificazione del dato ci mette comunque lo zampino: a basso livello, come classifichi l’influencer marketing o la newsletter o quella sponsorizzazione di un evento? Come tagghi un costo (un dato) di budget a livello granulare (e abbastanza arbitrariamente) influisce sul risultato finale.
Altri poi in questo processo induttivo confondono effetto e causa: «i brand di successo sono quelli che lavorano meglio sui social» o il diffuso insight «chi ha la carta fedeltà compra di più». Eh!
Il dato, nel marketing, doveva essere l’ariete che finalmente, con un secolo di ritardo, faceva entrare la disciplina nel diciannovesimo secolo, l’età della scienza vera e propria. Soprattutto doveva democratizzarla, portando a disposizione di chiunque strumenti come A/B test, analytics web e no, KPI, ecc. ecc. Il piccolo chimico finalmente alla portata di tutti. Ma oggi il data divide tra grandi aziende, piattaforme e PMI mi sembra ancora più largo.
Il problema di fondo rimane in ogni caso che il marketing, sia pure super-pimpato di dati, rimane tuttavia di base una disciplina umanistica, e non si occupa di molecole o virus ma di esseri umani e quindi per definizione soggetti dalla razionalità molto discutibile e dal comportamento molto variabile. Anche quando parliamo nel martech di “visione del cliente a 360°” nella migliore delle ipotesi sappiamo cosa ha acquistato e dove, e se apre le email o no, quando è stato sul sito l’ultima volta. Sono forse 3,6 gradi della sua vita, o forse meno, a occhio. Certo non 360.
Il rischio insito nel salto tra fede e iperdato, come se la scienza avesse scavallato il novecento, è che si passi dalla cieca fede nel manuale o nel diffuso metodo “secondo me” a una fede cieca nel dato, anche se, se proprio dovessi scegliere tra i due mali, preferirei il secondo.
Però dovremo sempre di più tenere in conto (lo afferma Columbro) obiettivi e bias di chi ha raccolto il dato e come questo faccia una bella differenza. E dunque non ignorare il conflitto di interessi quando chi raccoglie il dato (Google, Amazon, Meta, ecc.) e chi lo “vende” (ops, gli stessi!) corrisponde. Già una volta nella breve storia del digitale, la misurazione last click (imposta da Google come unico standard per la conversione) ha definito (e a volte deformato) la capacità di stare sul mercato di aziende il cui brand è stato svuotato dal brevetermismo e dal pensiero unico del ROAS. Ma ovviamente anche qualsiasi CRM o piattaforma di marketing automation si attribuisce un’alta percentuale delle vendite, lo sappiamo tutti. E perfino metodi come il Media Mix Modeling, venduti come «scientifici», hanno alla base delle scelte soggettive (come contare l’attenzione, le impression (tutte uguali?), la durata del ricordo di uno spot…) risultando anch’essi molto influenzati da scelte soggettive (non per questo necessariamente false, ma sicuramente arbitrarie).
Nel presente e nel futuro l’AI-based advertising aggiunge un ulteriore strato di mistero su come dati su interessi, comportamenti e insight siano stati elaborati, taggati e forse gerrymanderizzati e quali discriminazioni di marketing siano state effettuate. Comodo ed efficiente e ci piace tanto, ma l’importante è esserne coscienti. Nessun dato è davvero “imparziale”.
Il marketing insegnato dai negozianti
Per favore no.
Ti ricordo che ilmarketinginsegnatodainegozianti.info è un progetto gonzo-collettivo a cui puoi contribuire senza pietà.
Segnalazioni varie
La settimana scorsa ho parlato del falso vantaggio di arrivare per primi.
Quelli di Link si sono fidati e mi hanno affidato un reportage dai canali televisivi oltre il 999 nella smart TV, dove non osano (ancora) molti telespettatori, ma gli sponsor sì.
Dall’archivio di venti anni fa: andai a un outlet. Direi che non è cambiato molto.
That’s all folks!
Grazie di aver letto fin qua, di questi tempi è un miracolo.
Per analizzare assieme la strategia, l’organizzazione e il budget marketing della tua azienda, o per essere sponsor come wethod basta rispondere a questa mail.
ciao, gluca
Grazie a Daniela Bollini per la solita paziente correzione della bozza e a Cristina Portolano per i separatori.
Quiz: b) 75% (fonte).