[È venerdì] Il fascino assurdo del franchising
Di illusioni di autenticità e certezze di good enough
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Il fascino assurdo dei franchising
Ho amici che piuttosto che entrare in una Dispensa Emilia o andare a La Piadineria si farebbero un venerdì di digiuno laico (ovviamente sono emiliani e romagnoli, spesso, ma non solo, anzi. Spesso il mito è più di chi abita lontano che di chi ci è cresciuto). Su Old Wild West o Roadhouse avrebbero meno problemi, ma sono numerosi quelli che «non mangio quasi più carne e comunque la prendo da allevamenti terapeutici in cui gli animali ecc. ecc.». Altri viceversa, «mai nelle steakhouse!», ma ok a Poke House o Pokescuse (salvo i copywriter che si rifiutano «perché quel nome-battuta, signoramia»). Alla fine, ognuno ha il suo punto debole nel cibo. Eppure qualcosa non torna.
In realtà il franchising (n.d.r. un modello di business che consente a un imprenditore di avviare un’attività utilizzando il nome, i prodotti e il sistema operativo di un brand affermato) è solo parzialmente coincidente con la ristorazione. Circa un terzo del franchising è composto da supermercati (Carrefour prima di tutti), un altro terzo da servizi (dai vendo oro ai negozi di cover e cellulari ad agenzie di viaggi, ecc.) e un terzo, appunto quello che ci piace di più da descrivere, da cibo. Il mio commercialista, uno che ha scoperto Marco Montemagno solo due anni fa ma è attentissimo e avantissimo sulle dinamiche commerciali, mi disse già svariati anni fa: «È nel franchising che si fanno i soldi», cioè me lo disse in termini meno crudi, ma per capirci. Purtroppo non sapevo come aprire un franchising di me stesso, non ho la stoffa per questo tipo di cose, preferisco osservarle che finirci invischiato. Mi citò non so chi che apparentemente sosteneva che «un brand profittevole è qualcuno che riesce a promettere il sogno facendo fare il lavoro agli stagisti.». E anche un bel po’ di norme fisco-immobiliari che ho resettato immediatamente.
Perché poi, mi dicevo già mentre uscivo dal suo ufficio: «Ehi, non doveva essere l’era dell’autenticità?». Cioè nei sondaggi tutti dicevano di preferire il cibo locale, il contadino, la cucina casalinga: un mondo in cui i franchising dovrebbero essere vuoti. Al massimo potevano esistere i franchising hipster come Starbucks. E invece no, i franchising sono pieni e continuano pure ad aumentare in numero e location. Ci risiamo, la gente non fa quello che dice. Oppure abbiamo chiesto alle persone sbagliate, non so.
E la saturazione del mercato che porta alla ricerca di sostenibilità, al ritorno alla tradizione? E tutta la manfrina degli italiani che strippano nei siti internazionali quando la carbonara non è fatta come da sacre scritture? Chi sono questi barbari che si cibano di bistecche, tigelle e piadine prodotte in serie in catena di montaggio? Sono tra noi o siamo noi?
Possiamo guardare la voce del popolo, le recensioni.
Per lo stesso ristorante potrete trovare gente che si lamenta che la carne sia congelata (pensava che fosse portata ogni giorno dagli allevamenti?) e altri che la lodano («La carne è un ARTE» sic), ma altri la mettono allo stesso piano del parcheggio: «La tagliata è buona così come i panini. Altra cosa non c’è problema per il parcheggio. Ce ne è uno molto grande davanti, a pagamento, ma per i clienti che pranzano al roadhouse è gratuito.» Poi c’è quello che fa l’analisi sociologica completa di customer journey: «Non amo questo genere di locali ma se si deve andare ad uno spettacolo all’auditorium e si vuole mangiare un po’ prima o subito dopo questo ristorante è purtroppo una scelta quasi forzata e non certo entusiasmante. C’è poco da recensire: la cucina è standard un po’ come in tutto il resto della catena ed è il format che lo prevede. Posso solo dire che l’organizzazione è buona, il servizio veloce, la qualità discreta, i prezzi a mio avviso troppo alti per il genere di cibo, di ambiente e di tipologia di locale». Un altro recensore si lamenta della decadenza di una delle migliori trovate di marketing di Roadhouse, almeno secondo me: «Premetto che non andavo in questo locale da quasi dieci anni. È cambiato tutto tranne la mucca all'ingresso, e purtroppo non in meglio. A parte le sedute migliori rispetto a quelle di dieci anni fa; innanzitutto non ci sono più le arachidi offerte dal locale in quei caratteristici secchielli di alluminio, che facevano tanto "cena in famiglia". Le tortillas con la salsa piccante sono rimaste più o meno le stesse peccato che per tre persone ne venga portata solo una porzione sola».
I franchising ci insegnano che focalizzarci sulle cose che mettiamo in bocca alle persone nei sondaggi – quasi che queste usino davvero (solo) quei termini per scegliere (qualità, sostenibilità, ecc.) non è quasi mai una buona idea. Come spesso ripeto fino allo sfinimento, oggi ogni scelta è un mix di trigger, facilità di uso, di avversione al rischio e sospensione dell’incredulità.
Nel franchising c’è un po’ di tutto questo.
Il trigger funziona bene con i brand con un nome conosciuto. «Andiamo al…?» è facile da comunicare per organizzare la serata.
Il parcheggio citato nei commenti è il riassunto dell’accessibilità (in fin dei conti, si va a mangiare dove è più comodo parcheggiare).
L’avversione al rischio del consumatore è insito a livello di DNA nei franchising: «lo stesso hamburger da Singapore a Mosca» di (una volta) McDonald’s. Good enough is good enough, non ci farà esplodere le papille come quella chianina mangiata nell’osteria raggiungibile con uno stradello sterrato con pendenza 12% a Montebudello, ma ehi, qui i bambini sono abituati al menu, c’è l’area giochi così possiamo stare tranquilli mezzoretta su «le sedute migliori rispetto a quelle di dieci anni fa».
La sospensione dell’incredulità è un componente fondamentale del franchising. La mucca di cartongesso all’ingresso, la gentilezza del personale (che pensiamo non imposta da rigidi protocolli interni nonostante i 700 euro di stipendio), la tracciabilità del prodotto (senza approfondire troppo su cosa significhi, serve per la sicurezza alimentare, più che per la sostenibilità), la finta romagnolità del logo della graziosa piadinara col fazzoletto, quando le piadine sono prodotte a Montirone di Brescia (non c’è niente di male, anzi da emiliano un po’ sussurro tra me e me un «ehehe»; del resto ci volevano i bresciani a portare la piadina a Parigi, mica quell’inconcludente di Samuele Bersani). In Old Wild West la sospensione dell’incredulità è ai confini con quella dei parchi a tema. Sappiamo che lo scenario, il format, il mood è tutto finto ma ci va bene, anzi a volte ci andiamo proprio per quello.
«La Piadineria: prodotto artigianale, processi industriali1» è l’ossimoro giusto per questa epoca.
“L’azienda ha saputo affinare e sviluppare attorno a alla piadina un modello di business efficiente e redditizio dal punto di vista logistico, organizzativo e della gestione economico finanziaria.
Tutto è centralizzato: i punti vendita distribuiti sul territorio ricevono gli impasti e le farciture, per preparare una piadina che è di grande qualità, con gli stessi sapori e lo stesso gusto, in ogni parte di Italia. La Piadineria riesce a supportare un modello centralizzato di gestione e di distribuzione, che risulta essere la migliore garanzia sulla qualità e bontà del prodotto finale, e rende il format effettivamente scalabile.»
Non avrei saputo dirlo meglio. O meglio, l’avevo descritto così nell’ultimo numero di Quants, assieme ad altri trend 2024.
Non è un fenomeno nuovo: da sempre – almeno nell’epoca contemporanea – i nostri centri città, ma anche i centri commerciali (in senso lato, stazioni, aeroporti, ecc.) sono delle fotocopie l’uno dell’altro. Ognuno contiene le stesse “insegne”, o almeno la maggior parte di un pool di marchi che sono quasi in simbiosi con l’ambiente dello shopping stesso, quasi a plasmarlo più che semplicemente a farne parte. Il franchising sembra un po’ la classica gallina dalle uova d’oro, incurante dei tempi incerti e della rivoluzione e-commerce. Ovviamente non tutti hanno sempre successo, o almeno un grande successo, ma hanno un pregio notevole: quando funzionano poi sono replicabili, come fotocopie.
Qualcuno, a proposito, ha scritto (n.d.r. misterioso, a questo punto) che riesci a fare davvero business solo quando la tua operatività ha bisogno solamente di studenti e lavoratori part-time per essere portata avanti. Pensava al più iconico dei franchising, McDonald’s, ovviamente. La formula forse non è esattamente così semplice ma l’insegnamento è potente: è la macchina (o il sistema) che vince, non isolati apici di eccellenza. E a volte essere “prevedibili” (il cliente sa perfettamente cosa può aspettarsi e cosa no) è perfino preferibile all’essere “sorprendenti”: un secondo grande insegnamento.
Ma soprattutto il franchising ci insegna che sì, probabilmente lo spazio con più valore al mondo (almeno per il business) sarà la schermata dello smartphone, ma il secondo è, e rimane, il luogo in cui le persone, per necessità, svago, logistica, si trovano a trascorrere tempo fuori casa, possibilmente in un atteggiamento propenso all’apertura del portafoglio. L’occupazione dello spazio fisico (non è un caso che spesso queste catene vengano lanciate e supportate da gruppi con forte competenze nell’immobiliare) si somma all’esistenza di risorse per l’occupazione del tempo digitale, attraverso campagne social e televisive. La pubblicità costa, creare un marchio conosciuto costa ancora di più, e spalmare gli investimenti su molti punti vendita, identici, è estremamente conveniente.
(Sul franchising ci sarebbe poi da esplorare tutta la filiera B2B, di come ci siano consulenti, finanziatori, cacciatori di cacciatori di sogni, ecc. ecc., ma mi terrò il deep dive per il libro che sto scrivendo.)
Il marketing insegnato dai negozianti
No woke left in Goito.
Spotted by Raffy.
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Segnalazioni varie
La settimana scorsa ho parlato di marketing incuneato come rostro di navi romane.
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That’s all folks!
Grazie di aver letto fin qua, di questi tempi è un miracolo.
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ciao,
gluca
Grazie a Daniela Bollini per la solita paziente correzione della bozza e a Cristina Portolano per i separatori.
Quiz: c) 15 milioni (fonte). Extra: “Globalmente Vaniglia e Pino sono sempre sul podio”.