[È venerdì] Parlarne tra amici (di cose in vendita)
Dai primigenio social object di Gapingvoid al finto shopping su Pinterest: se vale più lo struscio che la vendita.
Oggi la classica intersezione tra economia, consumismi e persone oggetto di questa newsletter si occupa di come la merce è alla base delle conversazioni umane, e probabilmente le nutre. E potrebbe non essere poi nemmeno quel male assoluto.
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La rivoluzione del finto acquisto: il consumismo senza soldi, la conversazione senza social
Una delle definizioni sepolte nella storia del marketing su internet è “social object”.
Il Social Object è, in sintesi, la ragione per cui due persone parlano tra loro invece di parlare a qualcun altro. Gli esseri umani sono animali sociali. Ci piace socializzare. Se ci si pensa, però, occorre innanzitutto un motivo, una ragione perché questo accada. Questa ragione, questo “nodo” della rete sociale è ciò che chiamiamo Social Object.
A divulgarne il concetto nell’ambito del marketing fu Hugh MacLeod, conosciuto per il suo blog Gapingvoid. Non ci si raduna intorno a idee astratte, diceva, ma attorno a cose concrete che diventano spunto di conversazione. Cioè, dicevamo noi, il valore reale degli oggetti è nella loro capacità di farci socializzare. E quel valore, alla fine, si tramuta in vendite. Teorema sconvolgente, ai tempi, poi banalizzato da influencer marketing e viralismi. E forse da riscoprire nella sua prima verità, che si nasconde sotto le apparenze ingenue1.
Prendo un pezzo da un mio post (non ancora newsletter) del 2016, che riporta la traduzione del pezzo originale di MacLeod di Antonio Tombolini, oggi non più online.
Gli esseri umani sono molto più a loro agio nel comprendere la linearità, che non la casualità o la progressione esponenziale. […] Lanciamo uno spot pubblicitario. Le vendite salgono. E così, […] inquadriamo il fenomeno in maniera lineare, per spiegarcelo in termini di causa ed effetto: “La nostra pubblicità è piaciuta così tanto che le persone hanno piantato lì quel che stavano facendo per correre al supermercato e comprare il nostro prodotto!”
Fosse vero. Quel che è davvero successo è probabilmente dovuto molto di più alla casualità. Ti è capitato di vedere uno spot del Prodotto X. Pochi giorni dopo stai prendendo il caffè a casa della tua amica Pamela. C’è giusto un Prodotto X sul tavolo della cucina.
“Ho visto la pubblicità di quello qualche giorno fa”, dici a Pamela. “Com’è?”
“Sì”, risponde lei. “Non è male.”
Così, al prossimo passaggio al supermercato, vedrai il prodotto e lo comprerai. Non è stato lo spot [o il post sponsorizzato, NDR di @gluca] a procurare la vendita. E’ stata la tua amica a venderti il prodotto, non lo spot. Lo spot ha semplicemente avviato una conversazione. […]
La cosa più importante da ricordare è che i Social Objects in quanto tali non hanno importanza nel grande schema delle cose. […] Quando tu e Pamela vi siete incontrati per un caffè, avete interagito reciprocamente nel contesto di ciò che gli antropologi chiamano “socialità centrata sull’oggetto”. In altre parole, non avete socializzato nel vuoto, ma attorno ad oggetti, attorno a cose. Avete parlato dell’ultima partita dei Cubs (la squadra di baseball di Chicago, ndr). Di come va a scuola Billy. Di quel bel film che avete appena visto. Di quanto fosse buono il caffè di Pamela. E sì, certo, per quanto brevemente, avete parlato anche del Prodotto X. Un antropologo chiamerebbe tutte queste cose di cui avete parlato “Social Objects”. […]
Sì, gran parte della socializzazione è casuale. Ergo, sì, gran parte del marketing è allo stesso modo casuale. […]
La persona che tu vuoi ne parli [..] ne parlerà soltanto se potrà utilizzare il tuo prodotto come Social Object. Come un “gancio” per proseguire la conversazione. Un gancio da poter usare come mezzo per essere in relazione con gli esseri umani suoi amici.
La cattiva notizia è che gran parte dei prodotti è noiosa. La buona notizia è che anche gran parte del passaparola è noiosa. […]
Ma diciamo le cose come sono: non troveremo mai persone normali sedute insieme per affrontare una conversazione profonda e carica di significato sul Prodotto X. E tuttavia, guarda un po’, un paio di frasi buttate là da qualcuno come Pamela tra un caffè e l’altro, e subito dimenticate, saranno già abbastanza per ottenere la vendita.
[…] ogni prodotto, il tuo prodotto, il Prodotto X, È DI FATTO un social object.
Nel 2016 aggiungevo (e credo che sia più che valido ancora):
E ora l’update del 2016: quando parliamo di persone e di social object, possiamo tranquillamente supporre che queste abbiano uno smartphone in mano, e che parlando due minuti del nostro famigerato Prodotto X Pamela lo mostri direttamente sullo schermo (una foto, una app, una notifica, un sito mobile, un'email, uno screenshot, qualsiasi cosa), per far comprendere meglio – senza effetto “telefono senza fili” – ciò di cui sta parlando.
Abbiate pietà per l’epica del tono, erano gli anni del Cluetrain Manifesto e dei mercati che sono conversazioni, ecc. ecc. Sono stati gli anni del nostro '68 digitale, dei sogni spezzati, della meglio gioventù, e così via. Non infierite oltre. Ci credevamo.
Per esempio, questa vignetta girava tantissimo. Oggi la pubblicità ci parla in modo molto più educato (a volte troppo) di quanto ci parlino i nostri simili online.
Sia come sia, la speranza oggi ha in qualche modo superato le aspettative, ma ha fatto il giro. O meglio, le ha stravolte. Non solo i mercati non sono diventati conversazioni (almeno come le pensavamo allora: in punta di fioretto, antipubblicità, eccetera) ma addirittura le conversazioni sono diventate mercati. Il rapporto di forza si è ribaltato. Oggi online tutto gira intorno alle cose. Chissà cosa ne direbbe MacLeod.
Ci servono talmente gli oggetti per stabilire relazioni, passarci il tempo, allontanare la noia, che alla fine qualunque community va a finire lì. Nel mio libro Seguimi!, in pratica ogni algomunity di TikTok (non mi viene un termine migliore per persone tenute assieme da un involucro algoritmico) gira attorno alla vendita, a colpi di viralizzazione accelerata.
Pamela sarebbe nell’algomunity della genitorialità affaticata, il marito in quella del tifo sarcastico. Il caffè li colpirebbe entrambi a colpi di sponsorizzate. (A proposito, l’hai comprato il libro? Spero di sì, Pippo2.)
E paradossalmente, buona parte delle conversazioni umane non stanno più sui social degli amici, sono tracimate sui marketplace. Anticipo un passaggio da un mio pezzo che uscirà presto su Quants. Il tema è ovviamente Vinted.
Vinted è diventato passatempo esattamente come una piattaforma di intrattenimento, i cui contenuti, tra l’altro sono forniti a gratis dagli stessi venditori speranzosi. Oggi Vinted è un Instagram alternativo, con tanto di dissing, liti e insulti.
Quando un nostro prodotto finisce nei preferiti, l’effetto è meglio della dopamina di un nuovo cuoricino su Instagram. La vendita di un capo è molto più emozionante di un nuovo follower. La recensione, poi, è più gratificante di un commento. La stessa gestione della reputazione diventa un gioco serio: essere stati giudicati sempre a cinque stelle ci fa sentire importanti.
La stessa piattaforma diventa teatro per scambi “non commerciali”, alcuni effettivamente coloriti come quelli di certi gruppi Facebook, se non di più. Un reportage di descrizioni di pezzi in vendita come «Quel cornuto ha reso me cornuta. Vendo tutte le schifezze che si è dimenticato a casa mia per guadagnare soldi laddove ho perso del tempo» si legge in un articolo. Chissà se è vero o è solo un altro trucco da social media per vendere due maglioncini di angora.
Anche la trattativa per un paio di euro sembra più un rito, un balletto, un corteggiamento, che un vero tentativo di risparmiare la cifra pari a una brioche al bar. Serve per la soddisfazione, non per l’importo.
E come non citare la seconda giovinezza di Facebook sotto le spoglie del Marketplace? Il mercatino dell’usato iperlocale, in cui tra trash, kitsch, tentativi di truffa e storielle familiari dietro agli oggetti si dipanano storie di conversazioni mimetizzate da trattative e chiacchiere umane camuffate da operazioni di ritiro degli oggetti (su Marketplace nessuno spedisce), sta tenendo in piedi la baracca blu di Zuckerberg, con traffico inaspettato perfino dalla GenZ.
Facebook ha promesso di connettere le persone come mezzo per vendere loro cose; ora le persone stanno regalando cose come mezzo per connettersi. (Evan McMurry su The Atlantic3)
E quando non si può davvero acquistare, ecco arrivare la Pinterestizzazione Di Ogni Cosa. Ero in macchina con amici che si sono ritrovati, raccontandolo parallelamente, nello strano esercizio di comprare casa in modo virtuale, mettendo stelline e cuoricini su Immobiliare.it, Casa.it e Idealista, immaginando di possederle davvero, con tanto di rendering e arredi altrettanto virtuali presi da appositi strumenti dei siti su Ikea ma anche – a quel punto si può esagerare, no? – con sedie da pranzo Vitra, divani Ligne Roset, lampade Flos. “Che attico che avevo in centro a Bologna. Poi l'hanno comprato.” (Inteso, è stato venduto, e Idealista l’ha levato dal sito, addio cuoricino). A volte – mi dicono – si spingono fino ad andare a vedere le case, ben sapendo che non potranno mai acquistarle. Ma qui mi fermo, non vorrei che la lobby degli agenti immobiliari promuovesse un disegno di legge per vietarlo.
Del resto, la maggior parte delle trasmissioni su arredamento, comprare casa, ristrutturare hanno solo la facciata di “volerci insegnare a farlo”, ma si capisce bene che “basta guardare” e siamo contenti così. Perché non dovremmo farlo anche per gli acquisti sui marketplace (finti)?
Il dubbio che viene è se fingere di comprare sia un modo per proteggerci dal consumismo, o alla fine diventi una sorta di auto-trappola. A sua volta, il mercato digitale potrebbe sfruttare indirettamente questo apparente gioco alle sue spalle, del resto, si sa, il marketing è bravo nel trasformare rivolte in prodotti (semicit.).
Potrebbe essere che, a forza di immaginare possibili acquisti, di tenere oggetti vicini e sempre sott’occhio, di usare comunque queste piattaforme, si abbassino lentamente le nostre difese e finisca che un giorno quel divano Togo, quella giacca Gucci, quella casa in via Saragozza a Bologna che da tempo “possediamo” con gli occhi (o la board di Pinterest e/o la lista dei preferiti), passino improvvisamente dal carrello immaginario a quello reale.
Magari il mercato ha capito da tempo che non importa davvero se compriamo oggi, basta che non smettiamo di fingere di farlo. Il tempo è dalla sua parte. E anche i nostri dati. Come scrive di nuovo McMurry:
Mi considero una persona digitalmente esperta, eppure il calcolo fondamentale di Facebook (Marketplace) funziona ancora su di me come previsto: più tempo trascorro sull'app, meglio mi conosce, e meglio mi conosce, meglio può vendermi i velluti a coste di J. Crew e i pedali delay di Walrus Audio.
Il marketing insegnato dai negozianti
A proposito di 2016.
ilmarketinginsegnatodainegozianti.info è un progetto collettivo di gonzo journalism a cui puoi contribuire senza pietà. No screenshot o inoltri dai social, solo foto tue.
Segnalazioni dopo i ponti
La settimana scorsa ho anticipato un pezzo dal libro: quando sono andato alla fiera di Rimini, quella del wellness (e l’altra volta di come un copywriter persuasivo cercherebbe di venderlo, andando molte volte a capo, principalmente).
È uscito un mio pezzo reportage sul Netcomm, scritto per Tendenze di GS1, si chiama “L'AI ottimizza tutto, ma a conquistare è ancora una madeleine”.
Un free Marketing Assessment con me,
e Marketing Arena qui.
That’s all folks!
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Ci leggiamo venerdì prossimo.
gluca
Grazie a Daniela Bollini per la paziente correzione.
Grazie a Cristina Portolano per i separatori.
Quiz: c) 6,5% (fonte)
"How To Create A Social Object" - Gapingvoid
Pippo è l’appellativo di quando entro improvvisamente in modalità copy persuasivo. Si veda questa newsletter.
Facebook Is Just Craigslist Now - The Atlantic