[È venerdì] Tutti vendono tutto
Un'epoca di disattenzione in cui presidiare il contatto con il cliente diventa essenziale è anche un'epoca in cui puoi farti produrre tutto e metterci il tuo marchio sopra: cosa può andare storto?
Ero nella sala di attesa per una visita dermatologica e sono stato preceduto da un piccolo sciame di informatori del farmaco, una di quelle definizioni ipocrite del marketing farmaceutico, che nonostante lavorino – ipotizzo – per case (perché si dice case?) diverse sono tutti pappa e ciccia e abbracci e baci. È stata un’esperienza sentirli scambiarsi off the record orari propizi e tattiche di caccia al personale sanitario, nonché tratti caratteriali dello stesso. Saranno pagati a contatto? Sembrava che alla fine ottenere l’appuntamento fosse il fine, non il mezzo. Anche se poi, quando l’ultima informatrice rimasta è entrata, ho origliato: l’ultimo shampoo contro la cute grassa toglie l’untuosità ma con ancora meno irritazione. Almeno, così diceva lei. Questo come gentile reminder che il passato non scompare mai, si nasconde solo molto bene al martedi mattina alle 09:45.
Grazie allo sponsor, che oggi è TWOW, che offre un framework usabile sul dilemma del budget di marketing.
Ti piacerebbe avere 20.000 visualizzazioni profilate B2B e 100 lead di qualità alla tua landing page, a un quarto del costo di LinkedIn? Scrivimi a gluca@diegoli.com per il 2026: chi prima arriva sceglie il giorno e forse risparmia pure.
Il quiz della settimana
Quanto spende chi abita in Italia ogni anno in palestre, attività e abbigliamento per attività fisica?
a) 200 euro b) 500 euro c) 800 euro
Risposta alla fine.
[sponsor]
Nel 2011 Les Binet e Peter Field pubblicano The Long and the Short of It e introducono una delle regole auree dell’advertising: in media il 60% del budget andrebbe investito in campagne di brand building e il 40% in azioni di vendita diretta.
Oggi ogni piattaforma offre sempre più soluzioni ibride: video e audio ad alto impatto che allo stesso tempo profilano e convertono. Il risultato è che discutiamo all’infinito di “fare brand” o “fare performance”, ma quando costruiamo un media plan diventa sempre più difficile capire come suddividere correttamente il budget.
Con Media Plan Compass, in TWOW abbiamo provato a rimettere ordine con un modello che parte da due dimensioni semplici, maturità del brand e opportunità del mercato, e restituisce una direzione concreta sul mix tra campagne di branding e performance, integrando anche la dimensione ibrida.
Serve per rispondere a domande molto pratiche: stiamo spingendo troppo sul breve periodo? Possiamo permetterci più branding? Ha senso mettere davvero budget sui formati ibridi?
Nel paper gratuito trovi la logica del modello, alcuni esempi di media mix in contesti diversi e le modalità per applicare il nostro Media Plan Compass al tuo caso attraverso un workshop dedicato.
Perché tutti vogliono vendere tutto
TIM mi vuole vendere l’energia (e Poste gliela fornisce, ma chi la fornisce alle Poste?)
Questa settimana TIM mi ha mandato un SMS. Sono cliente felice da anni, nel senso che io pago regolarmente, loro mi aggiustano abbastanza velocemente la linea dati quando – raramente, a dire il vero – cade. Per me le cose tra di noi potrebbero finire così. Loro però, tramite SMS (a loro vengono via a poco) e TIM Party, non si arrendono mai. (Li ringrazio per facilitarmi il contenuto di tanti anni di newsletter). Ecco il messaggio:
Viviamo nell’epoca in cui le telecomunicazioni cercano di venderti tutto: pay TV, assicurazioni, finanziamenti per il telefono. Non è una novità, TimVision ci perseguita da anni peggio di YouTube Premium. Il dettaglio che mi ha colpito sta nella riga successiva: “Powered by Poste Italiane.”
Poste Italiane? Quella delle buste, dei pacchi, dei libretti postali. E adesso chissà come fornisce energia a TIM, che la vuole rivendere a me.
Io trovo questa cosa illuminante. Non che sempre funzioni bene ma ci dice qualcosa di preciso sul mondo in cui viviamo.
Quando i prodotti erano solo prodotti
Lea Ypi, nel suo libro Libera, racconta lo stupore suo e dell’amica Besa quando, caduto il regime comunista albanese, entrarono per la prima volta in un supermercato all’occidentale. Scrive: «Soprattutto ci sbalordiva il fatto che ogni prodotto avesse un’etichetta diversa. Invece del nome generico – dentifricio, pasta, birra – tutto era contrassegnato da un nome proprio, come una persona: Barilla, Heineken, Colgate. Valeva anche per il supermercato. Perché non si chiamava panetteria, macelleria, negozio di vestiti o di caffè? ‘Immagina come sarebbe averne uno nostro,’ disse Besa. ‘Carne Ypi, Caffè Marsida o Pane di Besa.’»
Da quell’epoca sono passate ere geologiche di marketing. I brand non solo hanno nomi oltre a un prodotto, e tanti: dietro quel nome vendono – provano a vendere – qualsiasi prodotto. Se il co-marketing era stato il primo passo, il passaggio hardcore è il “powered by”, la formuletta con cui ci attacchi sopra il tuo brand e via. TIM vende energia fornita da Poste a sua volta fornita da non si sa chi. Coop vende telefonia mobile senza nessun ripetitore – quelli sono di TIM. Vodafone powered by Fastweb (o viceversa? boh). Il bar sotto casa vende ricariche telefoniche, ritiro pacchi Amazon, Gratta e Vinci, e probabilmente anche fondi pensioni se chiedi. Il bar è un brand ombrello per tutto.
È sia assurdo che razionalissimo.
Perché tutti vendono tutto?
La prima ragione è semplice: costa spesso meno (e rende di più) vendere di più ai clienti esistenti (share of wallet, si chiama, con un termine che ho sempre trovato buffo ma ficcante) che trovarne di nuovi, lo dice anche il vecchio adagio – fatto peraltro non sempre vero, ma quasi sempre vero nei business con rapporti continuativi con i clienti.
È che i costi di acquisizione sono esplosi. Siamo in un mercato sovraffollato, dominato dal duopolio Google-Meta, dove ogni click ha un prezzo tipo i pinoli. Se hai già una base clienti, se hai già i loro dati, se hai già il permesso di contattarli, tanto vale proporgli qualcos’altro.
È per questo che sono tornate le collaborazioni, le operazioni che negli anni Duemila i brand di lusso spacciavano per illuminazioni artistiche e che in realtà erano (e sono) scambi di audience compatibili. Tu hai clienti che potrebbero interessare a me, io ho clienti che potrebbero interessare a te: facciamo un’offerta/un prodotto/una capsule insieme e smezziamo i costi. Poi facciamo PR e la spieghiamo come culture flow.
La seconda ragione è più strutturale: quasi tutto ormai si produce in white label. Una miriade di brand diversi viene prodotta dagli stessi subfornitori. È la stessa cosa per cui, anni fa, la gente scopriva che i biscotti del supermercato e quelli di marca uscivano dallo stesso stabilimento in provincia di Treviso e si sentiva molto intelligente (il che non ne determina necessariamente la stessa qualità, ma vabbè, che gli vai a dire a questi convinti di avere scoperto il segreto del perfido marketing). Le sneakers vengono fatte nelle stesse fabbriche vietnamite. Nei cosmetici il 99% degli ingredienti è uguale nel 99% dei prodotti. È come se il dropshipping si fosse incistato nell’economia contemporanea.
E ovviamente, per ogni trend oggi esiste il suo opposto: è in corso in vari settori la rivolta nostalgica contro la standardizzazione, che io chiamo “i guerriglieri del vinile”. Le auto condividono il 90% dei componenti: e c’è chi rimpiange le Alfa Romeo prima che fossero integrate in Stellantis e – sostengono – diventassero identiche alle Peugeot. Guerriglieri del vinile pure lì, sparuti e arrabbiatissimi.
Chi controlla il rapporto col cliente controlla il mercato
La differenza non sta più da tempo in quello che c’è dentro, forse neanche nel packaging. Sta tutto nel rapporto con il cliente. Marco Cordioli scrisse anni fa nel suo libro “i consumatori identificano le marche da ciò che esse erogano”. Cioè l’esperienza batte l’etichetta, che batte la produzione.
Chi controlla il rapporto col cliente controlla il mercato. Il potere si è spostato dalla produzione al retail. Ecco perché i marchi del supermercato crescono in proporzione ai brand tradizionali. Ecco perché TIM può propormi energia: non la produce, la compra da chi a sua volta la compra da qualcun altro, ma ha me. Ha il mio numero di telefono (ovviamente), la mia email, il mio consenso – non che sia difficile averlo, il mio, si sa.
Noi marketer oggi siamo tutti, in un certo senso, operatori virtuali. Puoi lanciare una birra senza avere una birreria, un gin senza avere una distilleria (per favore, no, lo dico per il vostro bene, era solo un esempio). Ai brand del fashion non serve possedere una fabbrica – con tutti i problemi legali del caso, peraltro. E, a quanto pare, per vendere un’offerta energia non serve sapere qualcosa di energia.
Il pesce che si allontana dalla tana
Ma dove sfuma questa cosa? Qual è il limite estremo?
Sentivo il direttore marketing di Adidas dire, in un podcast, che in un mondo fotocopiabile dall’intelligenza artificiale il brand rimane l’unica cosa difficile da riprodurre. Concordo, anche quando dice poco dopo che la sfida diventa la credibilità: Adidas deve essere credibile come sport brand (leggi, sperperare in sponsorizzazioni sportive) anche quando vende scarpe che al massimo saranno usate per correre a prendere il treno: anche il brand ha un raggio d’azione. È come certi pesci – non so se sia una leggenda metropolitana o roba da National Geographic, non ho avuto tempo di verificare – che perdono forza man mano che si allontanano dalla loro tana. Pesci con una tana, chissà?
TIM che mi vende energia fornita da Poste è credibile? Probabilmente no. Ma è anche vero che l’energia, beh, basta che funzioni e costi poco, o meglio, mi faccia pensare che costi poco. Più avanziamo verso la commodity, più la credibilità perde importanza. Il gas è gas. La corrente è corrente.
Se invece parliamo di sneaker, di cosmesi, di esperienze dove l’identità – nostra e del brand – conta, tutto cambia. Quando TIM mi vorrà vendere una linea cosmetica dentro il TIM Party della domenica, con la app TIM Router (esiste) che via Wi-Fi misura il livello lipidico della mia pelle, ecco, lì comincerò ad avere qualche sospetto sulla loro sanità mentale.
L’era del raggiro è finita (forse)
The Economist, qualche settimana fa, ha scritto un articolo1 entusiasta, “The end of the rip-off economy.” La tesi è che l’intelligenza artificiale, dopo le recensioni e Google, rimuoverà uno dei vantaggi residui più duraturi del capitalismo moderno, cioè il vantaggio informativo che venditori e intermediari hanno sui consumatori. Quando tutti avremo “un genio in tasca”, dicono, saremo meno vulnerabili alle fregature. La “rip-off economy”, come la chiamano loro, quella in cui le aziende lucrano su opacità, confusione, inerzia, sta per finire. Appiccicare brand con markup su fornitori generici dovrebbe essere quindi una pratica sconfitta dalla tecnologia. Perché non comprare alla fonte? Il problema, ancora una volta, siamo noi.
Il punto non è se possiamo avere tutte le informazioni. Il punto è se abbiamo voglia di passare mezz’ora a confrontare offerte luce dai produttori che hanno davvero una diga idroelettrica? Di capire se il gin che compriamo è davvero artigianale o esce dalla stessa distilleria industriale di altri venti? Ci interessa ancora?
La verità è che per molti beni – quelli irrilevanti, quelli de gustibus, quelli dove tanto “va bene così” – la nostra capacità o volontà di giudizio è scarsissima. Discende dalla scarsità di attenzione: Brad Stone in Vendere tutto citava Bezos: “Con scelta illimitata, si compete per l’attenzione.”
L’attenzione è oggi per chi ci vende le cose, non per chi le fa.
Il libro giallo in tour
Presento il libro giallo sui brand travestiti da culti e viceversa:
stasera 21 novembre ad Anzola nell’Emilia (BO), Cà Rossa alle 21:00 – festival Fabbrica delle Parole, aperta a tutti con registrazione;
il 28 novembre alle 18:30 a Genova presso TWOW, aperta a tutti con registrazione, in collaborazione con la libreria L’Amico Ritrovato;
il 4 dicembre alle 18:00 a Bologna nella sede di IAAD vicino alla stazione, aperta a tutti, in dialogo con Cristina Portolano che ne ha fatto una splendida mappa.
Per workshop e presentazioni private, scrivimi a eventi@diegoli.com.
I negozianti che insegnano il marketing
Gianluca Gotto meets il marketing insegnato dai negozianti.
Cose mie che potrebbero interessarti
La scorsa settimana abbiamo parlato dei nuovi eroi del marketing del Q4, gli elfi sugli scaffali.
È fuori la quarta puntata di Taglio, il mio inserto audio di 20 minuti in cui commento alcuni trend e dati di marketing (ora anche in podcast vero e proprio).
È uscito un mio articolo sul Domani, su come l’algoritmo faccia nascere e morire i nuovi prodotti, a partire dalla vexata quaestio del cioccolato “di Dubai”. È per chi ha l’abbonamento, ma – ehi – è black friday, vi portate a casa un anno per soli 60 euro :)
Ci si sente venerdì prossimo. Per qualsiasi cosa, futile o no, scrivete a gluca@diegoli.com.
Ciao,
gluca
E grazie come sempre a Daniela Bollini per la paziente revisione del testo, a Cristina Portolano per i separatori, e a Twow per la sponsorizzazione di questo episodio.
Quiz: b) 500 euro (fonte)
![Il venerdì di [mini]marketing](https://substackcdn.com/image/fetch/$s_!vuky!,w_80,h_80,c_fill,f_auto,q_auto:good,fl_progressive:steep,g_auto/https%3A%2F%2Fsubstack-post-media.s3.amazonaws.com%2Fpublic%2Fimages%2Ffd6be18f-4b0e-47da-9179-9f32052c5bcb_554x554.png)








Mi pare di capire che i libri di Al Ries come "Focus" e "Le 22 leggi immutabili del marketing" su certe scrivanie non ci sono mai arrivati. Potrei scommettere una ciabatta che questa storia della Tim che vende energia non andrà avanti a lungo, o quanto meno che lo farà solo finché saranno disposti a perdere soldi in questa direzione.