Questa settimana è mancato Giuseppe Granieri. Alla maggior parte di chi legge non dirà molto il suo nome, oggi. Ma per chi aveva fatto parte della subcultura dei blog in Italia agli inizi degli anni 2000 il suo nome è legato, oltre che alla sua enorme visione e competenza, a un periodo in cui la monetizzazione non aveva ancora infiltrato ogni bit dell’internet, di cui lui era stato (ed era, per quello che aveva scritto in questi anni) un indisputabile guru (anche se a lui il termine non sarebbe ovviamente piaciuto). Ciao Giuseppe, ti devo molto.
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Il quiz della settimana
Quante ricerche ci sono state su Google per “cileni ripieni di zucchero”?
a) 18.000 b) 180.000 c) 1.800.000
In fondo la risposta.
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Dove fai pubblicità conta
Nell’epoca in cui i KPI numerici sono i fari che indirizzano scelte e valutazioni, è abbastanza facile dimenticare un indiscutibile fatto, supportato da ricerche ed evidenze: dove fai advertising conta. Non mi riferisco al solito e fondamentale riferimento alla audience target, ma al fatto che, riciclando l’usurata e onnipresente citazione mcluhaniana, il mezzo (in cui fai pubblicità) è (molto influente) sul messaggio che vai a mostrare. Gli indicatori sono ovviamente fondamentali: sapere quanto ti è costata una visualizzazione, e quanto ti è costata in modo comparativo tra diversi canali e azioni è alla base di una buona pianificazione di budget di marketing. Ma non sempre il minor costo della visualizzazione corrisponde alla migliore scelta. Questo sicuramente perché le metriche di visualizzazione (e soprattutto di attenzione) sono difficilmente comparabili (vedi un mio vecchio pezzo sulla questione), ma anche perché c’è una sottovalutata osmosi tra chi crea il messaggio di intrattenimento (il mezzo) e chi ci si infila dentro per mandare un messaggio (promozionale). Questa osmosi viene trascurata dalle misurazioni, non perché non sia importante, ma perché è difficilmente misurabile. In Svuota il Carrello parlavo di (la definizione è mia) «effetto spreco»:
Un’ipotesi sul funzionamento della pubblicità di massa prende in considerazione più pragmaticamente la correlazione tra la spesa in pubblicità e la reputazione di brand. Un economista, Phillip Nelson, ha studiato la relazione tra la quantità di (soldi in) pubblicità “percettibile pubblicamente” (e la tv è uno dei mezzi più visibili a tutti, ovviamente) e la percezione di qualità del prodotto. Quanto e in che modo un’azienda spende in pubblicità (più che il contenuto della stessa) ci impressiona e ci persuade all’acquisto. Sponsorizzare un’importante squadra di serie A, infilare un advertising in Times Square a New York, uno spot a Sanremo comunicano che l’azienda sta impegnando risorse importanti in modi prestigiosi – e quindi il prodotto deve essere eccellente.
Se dovessi misurare solo attraverso il costo per visualizzazione, anche mettendoci dentro un plus per la maggiore attenzione, non comprerei mai una pubblicità sulla prima pagina di un giornale (prestigioso, ma per alcuni target i giornali di carta, anche quelli più turpi, sono prestigiosi) o un’affissione in una piazza centrale. Eppure, qualcuno lo fa. Per vanità, certo, la meccanica più sottovalutata dai profani nell’analizzare le dinamiche del marketing, ma più spesso perché nei marketer con più esperienza c’è la sensazione, difficilmente spiegabile dalle dashboard, che l’effetto osmosi, per cui un mezzo trasmette il proprio fascino al brand che si promuove su di esso, sia una cosa reale e potente.
Non si tratta solo di brand safety, come in questi anni abbiamo definito il problema di «capire chi è l’utente al museo, per poi fare advertising al cesso del museo», cioè «colonizzare» gli utenti su Repubblica, ma di ri-targetizzarli nei più turpi e perfino illegali siti, solo perché farlo lì costa meno. Quello è il caso estremo. Ma la brand safety non è mai un on-off, è un gradiente tra essere sui mezzi in cui si «guadagna prestigio» dall’esserci – osmosi positiva – fino ai luoghi della Rete in cui il costo basso della nostra presenza si paga con il trasferimento della nostra reputazione a siti di scommesse o di disinformazione russa, o più che altro viceversa, con la percezione del mezzo che si ribalta sulla percezione dell’inserzionista. (Su questo Google è uno dei principali imputati, si veda il sito CheckMyAds.org.) Non vale solo per internet ovviamente, anche se internet è il regno degli estremi e quindi delle differenze più ampie tra osmosi, molto più di radio, podcast, affissioni e TV. C’è anche da dire che i giornali «alti» hanno già buttato via parte di questa vecchia allure, grazie al clickbait del “native advertising” e dei propri «boxini morbosi».
Il 39% dei consumatori italiani si sentirebbe meno favorevole verso i brand la cui pubblicità appare accanto a contenuti di bassa qualità. Guardando alla responsabilità del contesto pubblicitario, i consumatori la attribuiscono agli inserzionisti. Infatti, il 75% dei consumatori italiani ritiene i brand responsabili del contenuto che appare accanto ai loro annunci pubblicitari. (The Ripple Effect | IAS)
In tutto il casino che sta per esplodere dopo che quest’anno Google abbatterà per sempre i cookie di terze parti, e quindi il retargeting come lo conosciamo ora, c’è anche un lato positivo. Si chiama ritorno alla pubblicità contestuale, che nel corso di digital in IULM affrontavamo come un vecchio relitto da qualche anno. Tornare a seguire il flusso dell’utente, il qui e ora, rispetto a quello che ha fatto in passato. Tornare a pensare che il contesto in cui la pubblicità viene presentata è fondamentale. L'idea è che la pubblicità sia più efficace quando inserita in un contesto rilevante per il messaggio pubblicitario o per il pubblico target. Ad esempio, una pubblicità per attrezzature sportive potrebbe essere più efficace se mostrata durante una trasmissione sportiva invece che in un sito di meteo-drama, anche se l’utente ha lasciato una cyclette nel carrello. Su questo esistono dimenticate ricerche pubblicate sull'International Journal of Advertising che supportano l'idea che il contesto in cui appare una pubblicità possa migliorare sia l'attenzione che l'attitudine verso il messaggio pubblicitario. Ovviamente cose difficili da misurare nelle dashboard.
Nel mio piccolo, ho l’impressione che buona parte di chi sponsorizza questa newsletter non cerchi solo clic o view, che i banner e l’affiliazione potrebbero fornire a più basso costo, ma una sorta di osmosi, che in effetti cerco di dare, basandomi su di un mio filtro personale rispetto agli interessi di chi legge e il servizio o il prodotto proposto. Non posso garantire, ma posso filtrare. Quello che i giornali hanno smesso di fare da tempo. Resta da vedere se questa osmosi – parlo ora in generale – continuerà a funzionare per le generazioni che sono platform-native, forse più abituate a distinguere tra «sponsorizzate» e organico. O se l’effetto spreco e l’effetto osmosi si siano per sempre spostate verso i creator. Tema per un’altra puntata.
Il marketing insegnato dai negozianti
Onesto. Mi piace.
Vi ricordo ilmarketinginsegnatodainegozianti.info, a cui potete contribuire anche voi.
Segnalazioni varie
La settimana scorsa ho parlato di buttare via il PED.
Una newsletter di valore alla settimana: quella di Check My Ads, se lavorate nella digital ads e vi interessano i problemi etici che questa comporta.
That’s all folks!
Grazie di aver letto fin qua, di questi tempi è un miracolo.
Per analizzare assieme la strategia, l’organizzazione e il budget della tua azienda, per il mio corso di marketing o per essere sponsor come MailUp basta rispondere a questa mail.
ciao, gluca
Grazie a Daniela Bollini per la solita paziente correzione della bozza e a Cristina Portolano per i separatori.
Quiz: a) 18.000 (fonte).