Si avvicina Halloween, ripeto, si avvicina Halloween. Chi sa, sa.
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I fondi etici rendono meno degli altri?
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Il quiz della settimana
Per quale/i di questi Stati la superficie è superiore a quella dei campi dell’UE coltivati a zucche?
1. San Marino 2. Liechtenstein 3. Andorra
Risposta in fondo.
Di rumore e bias
Da un bel po’ di tempo il libro(ne) di Daniel Kahneman, psicologo e premio Nobel per l’economia (comportamentale), scomparso di recente, mi osservava pensoso dalla libreria del mio studio. Noise: A Flaw in Human Judgment è uno di quei libri le cui prime recensioni e le cui dimensioni (ma anche la scomodità della copertina rigida, ma perché?) ti spingono ad attendere prima di leggerlo. Come una roba che butti nell’acqua, e aspetti di vedere se galleggia o no. In realtà non so poi se galleggiasse, perché ovviamente me ne sono dimenticato subito dopo averlo riposto nella libreria, appunto. Me ne sono ricordato solo perché stavo sull’ellittica ad ascoltare podcast di rassegne stampa (ci sono ormai più rassegne stampa che giornali, e più ascoltatori di rassegne stampa che lettori, credo) e il mio sguardo casualmente è caduto su di lui, il tomo. Ho iniziato a leggerlo – a dire il vero – a sfogliarlo. Del resto è un libro di statistica (anche se pop) e non un giallo, e quindi volevo sapere come andava a finire a costo di perdermi qualche sfumatura della trama.
Cosa dice il libro? Intanto ci racconta la differenza tra la star dei nostri tempi, il bias, e lo sconosciuto rumore, appunto. Ovviamente l’autore parteggia per lui, e un po’ anche io.
Il rumore è la variabilità nei giudizi umani. Contrariamente al bias, che è una tendenza sistematica verso un errore specifico, il rumore rappresenta la variabilità casuale che porta a giudizi incoerenti, diversi tra diversi valutatori o uguali in situazioni diverse. Il bias è un giudice che emette normalmente sentenze più dure dei suoi colleghi verso gli immigrati, il rumore è avere la sfortuna di capitare con quel giudice – o meglio, la differenza tra sentenze esistenti in un ambito, la loro dispersione lontana dalla media.
Il rumore di livello si verifica quando ci sono differenze sistematiche nei giudizi tra individui che dovrebbero, in teoria, prendere decisioni simili. Questo accade quando diversi decisori applicano criteri diversi, anche quando si trovano di fronte a casi analoghi.
Il rumore di pattern invece porta a “inconsistenze costanti” all'interno dello stesso decisore. Sebbene il giudice sia la stessa persona, il suo giudizio varia a seconda del contesto, come essere giudicati più gravemente alla sera da un giudice arrabbiato e stanco a fine turno, oppure ancora essere l’ultimo della lista dopo una lunga serie di assoluzioni (e quindi vieni ritenuto colpevole perché non concepiamo l’anomalia, e tendiamo a far tornare i risultati in una fittizia “media mentale”).
Poi esiste il rumore occasionale. Fa caldo: solo quando è freddo i giudici sono più clementi nei reati che coinvolgono immigrati o senzatetto. La sua squadra di calcio ha perso. Si è lasciato con la compagna. Il figlio non l’ha fatto dormire.
Kahneman si applica soprattutto al tema della giustizia, un tema a cui personalmente tengo. Le sentenze sono lotterie, diceva un mio amico avvocato – e no, non basta sapere “com’è di solito quel giudice” (il suo bias verso quella situazione, come vediamo nelle serie americane), bisogna essere fortunati a trovare in calendario quel giudice, che si sia svegliato bene, che ci sia stato posto nel parcheggio, che l’aria condizionata funzioni in aula. (C’è anche da dire che il sistema giuridico europeo lascia meno spazio alla creatività del giudice. La forchetta del rumore è meno ampia. Ma comunque una lotteria.)
Nel marketing, dove nessuno deve prendere decisioni così gravi, anche se qualche volta sembra di sì, abbiamo deciso che il rumore non esiste. Facciamo tutti finta che le decisioni siano razionali, validate, ma sappiamo bene che non è così. Ecco il nostro rumore quotidiano:
- Com’è il director oggi, per quel budget?
- Alla mattina è sempre scorbutico, non ti conviene.
[Due giorni dopo]
- E oggi?
- Vai, è tutto carico perché ha visto il Superbowl e dice che dobbiamo tirarcela di più con la pubblicità. Dopo lo steering committee ha l’agenda libera.
[Quattro ore dopo]
- Vado?
- No, guarda, ha passato il pranzo con quella delle risorse umane. Meglio di no. Riprova lunedì che ha il weekend in Sardegna…
(Il bias del direttore sarebbe invece che sei troppo giovane, e magari pure donna, per poter aver fatto un budget sensato.)
Io (almeno nel marketing) tengo per gli algoritmi, si sa e lo so che non è di moda dirlo. A volte gli amici algoritmi sono un po’ biased come le persone da cui provengono, a volte prendono un po’ troppo alla lettera l’obiettivo dimenticando il contesto. Noi stessi a volte si esagera con i test perdendo più tempo del guadagno possibile. Ma almeno il loro giudizio non è influenzato dal caldo, dall’ordine di una lista, dai sentimenti, dalle partite di calcio. Non è poco.
Poi possiamo anche prendere decisioni umane migliori. Le tanto ironizzate sedute di incollaggio di post-it alla design thinking spesso portano a valutazioni migliori perché evitano la regressione delle opinioni personali verso il gregge che a sua volta regredisce verso i leader: se non c’è modo di sapere se una soluzione è quella giusta (nel marketing mai, in effetti), a volte la media di varie decisioni è un buon metodo, dice Kahneman, purché sia spontanea. E anche procedure scritte, playbook, processi, modalità di valutazione a punti, ottenere un secondo parere (cosa che faccio io, disclaimer), scorecard, e dati a supporto. Certo, il rischio è replicare la liturgia delle certificazioni ISO, grandi recite aziendali svolte una volta, che spesso poi sono solo sceneggiature chiuse nei cassetti. Nessun rimedio è perfetto. Non so se Kahneman avrebbe approvato il mio metodo dei playoff o della piramide.
(Però il rumore, nel marketing, è anche affidarci alla fortuna, alla fine. Ci conviene poi abbatterlo?)
(Per un giudizio critico sul libro, vi consiglio un articolo del Cicap. Se volete un mio giudizio breve: bastavano 150 pagine.)
Il marketing insegnato dai negozianti
Okok.
(da Simone, Prato)
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Segnalazioni varie
La scorsa newsletter ho parlato di microbrand, culti e personalizzazione.
È uscito il secondo video di una mia serie divulgativa, su personalizzazione, AI e consumi contemporanei.
Ho scritto un pezzo lunghetto su dove va il fashion online, per il magazine Tendenze.
That’s all folks!
Grazie di aver letto fin qua, di questi tempi è tanta roba.
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ciao,
gluca
Grazie a Daniela Bollini per la solita paziente correzione della bozza e a Cristina Portolano per i separatori.
Quiz: 3. Solamente Andorra supera l’estensione delle zucche (fonte).