[È venerdì] L'AI come motore di ricerca ha una chance?
L'AI search non sarà per tutti. Ma potrebbe essere "per te".
L’aeroporto di Bologna è continuamente in manutenzione/ristrutturazione/evoluzione. Arrivi e dove c’era il terribile Sky Lounge non c’è più nulla, se non cartongesso temporaneo come muro, stringendo le persone in partenza in ancora meno metri quadri. Cartongesso anche ai controlli di ingresso. Il cartongesso in BLQ è come una placenta: chissà cosa ne uscirà, si pensa passandoci accanto. Ancora più mefitici profumi? Altri prodotti DOP overpriced per stranieri? Una biella enorme prodotta in motorvalley in un eccesso di hybris? Il complesso commerciale e pubblicitario degli aeroporti ha una sua logica bizzarra, prima o poi ne scriverò.
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Il quiz della settimana
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La AI, in pratica: il caso Credem
La convinzione che la gestione dei dati e dell’intelligenza artificiale abbia la capacità di rivoluzionare processi e modelli di business, anche in ambito finanziario, ha spinto Credem a intraprendere un percorso di investimento e sviluppo attraverso il progetto AINEXT, su cui Credem investirà nei prossimi anni circa 10 milioni di euro. AINEXT si pone l’obiettivo di creare valore per i nostri stakeholder attraverso la diffusione e l’accelerazione dell’azione dell’AI e dei dati, garantendo anche il sistema di governance e controllo richiesto agli istituti vigilati dalla BCE.
Ad oggi sono già 29 le soluzioni sviluppate, tra cui Service Level Indicator, una soluzione per predire un indice che sintetizza la gravità e la durata dei fermi delle procedure aziendali, e Crypto Detection, una soluzione che rende più efficace ed efficiente l’individuazione di frodi con focus sul mondo delle criptovalute.
Credem ha deciso inoltre di adottare un nuovo modello organizzativo con un centro propulsivo incarnato dalla nuova area specializzata AINEXT e venti unità di sviluppo verticali, che coinvolgono 350 persone, diffuse in modo capillare in tutte le aree aziendali. L’area AINEXT permetterà di mettere a sistema le competenze del Gruppo nell'ambito dell'intelligenza artificiale, dei dati e delle tecnologie legate all’informazione con la spinta innovativa e le connessioni con l’ecosistema esterno del team innovazione.
[Visita tutte le iniziative di Credem per l’innovazione]
Dal motore ai motori di ricerca?
Come sostiene giustamente Ben Evans1, chi è già presente in un mercato (incumbent) cerca di far diventare l’innovazione una feature, un qualcosa in più da aggiungere al prodotto per adeguarsi al nuovo trend senza perdere però il vantaggio acquisito. Ovviamente chi produce innovazione come prodotto cerca invece di creare un nuovo mercato, o meglio una nuova abitudine di acquisto, un nuovo journey, in modo da rendere obsoleto chi c’è già. È quello che sta accadendo con l’AI. C’è un po’ di AI in qualsiasi cosa oggi. Da Canva a HubSpot, da Microsoft Word a Google Docs, dalla mail di Spark fino a Notion, il tasto «+AI» è onnipresente come Clippy, la graffettina animata abbastanza inutile e cringe che appariva quando aprivi Word o PowerPoint. Di solito costa qualche euro in più al mese. Ho dubbi su quanti paghino per la AI dentro i tool, al momento. Solo Microsoft (che però è Microsoft) ha dichiarato che l’upgrade al suo Copilot dentro Office è stato abbastanza di successo.
Altrove in internet i soldi in gioco sono ben di più – e sono nella pubblicità ovviamente. Il dubbio che nel mercato abbiamo avuto tutti, anche perché potrebbe davvero sconvolgere l’internet come la conosciamo, è se la ricerca su Google avrebbe avuto ancora la presa monopolistica che ha ora, in cui in Italia il 99% delle persone la usa senza nemmeno più domandarsi se ci sia qualcosa di diverso o migliore.
Il primo tentativo, quello di Bing, di mescolare le risposte «a link» con le risposte tipiche della AI «a riassunto» non è che abbia entusiasmato le folle. L’interfaccia non era certo il massimo dell’eleganza e della praticità, e il database di link e il ranking dei siti di Bing non è all’altezza di quello di Google, e nemmeno un tocco di AI ai risultati «a riassunto» è riuscito a muovere la tenue quota di mercato del motore di Microsoft, come sotto sotto chiunque spenda soldi in advertising si augurava. Più competitor, più concorrenza sui CPC, meno budget. Non è andata così, evidentemente, almeno per ora. Dopo un anno però le illusioni di apertura del mercato della search sono andate quasi perse. La search, finché rimane search, non avrà altro dio al di fuori di Google.
La ricerca è stata l’organizzazione di base della conoscenza per venti e più anni, di cui almeno venti dominati da Google. E il pay per click è stata la macchina-stampa-soldi più potente della storia dell’umanità. Fatturato, monopolio e abitudine vanno spesso di pari passo. Google è usato oggi da tutti, da coloro che cercano una frase ispirazionale per i social fino a chi sta cercando nuovi fornitori per un impianto industriale. Come si dice nella teoria SEO, ci sono ricerche «navigazionali» (voglio arrivare a un sito o a una località o a un esercizio commerciale), ricerche «commerciali» (sto cercando un prodotto, forse per comprarlo), ricerche di contenuto o informative o di auto-formazione (turorial e C.).
Insomma, era ed è la Google tronfia del famoso paper e video sui micro-momenti: da me parte qualsiasi cosa su internet, diceva Google, e stop.
Da un po’ di tempo succede l’impensabile: diverse persone su LinkedIn hanno detto di aver smesso di usare Google per la maggior parte delle ricerche, sostituendolo con ChatGPT o Perplexity. Questo solitamente non depone bene, perché ci fa sottovalutare il volume del mainstream: Word è il leader, e non Google Docs.
Ora vorrei tentare un approccio diverso per capire se questo trend ha davvero un senso o è solo fanatismo da early adopter, destinato a svanire appena il prodotto incrocia la early majority2. Per capire se Perplexity e C. ce la possono fare, dobbiamo uscire, come sempre, dalla visione di prodotto (ricerca) per imbracciare la visione di bisogno (Job to be done), e segmentare il mercato come da teoria del marketing. Il mercato della search potrebbe essere, per la prima volta in molti anni, efficacemente unbundled? Potrebbe non esserci, per la prima volta nella storia, un unico «motore di ricerca»? Potrebbe la ricerca, per alcuni segmenti, essere qualcosa di diverso?
Qual è il vero valore percepito di una ricerca di informazioni? Non è solo il risultato, più o meno tecnicamente buono rispetto alle aspettative, erroneamente spesso indicato come determinante di questo mercato. È come se il mercato delle auto fosse determinato dalla bontà del motore.
Il valore di ogni ricerca su Google è un bundle di «tempo risparmiato» + «abitudine, facilità, visibilità» + «valore del risultato per la mia vita o il mio lavoro».
Oggi, lo sa anche Google, c’è una certa insoddisfazione strisciante nei confronti dei suoi risultati, organici e a pagamento.
Ma certo non da parte della gente «comune», quella che cerca la migliore pizzeria, il sito di un marchio per non digitarne l’indirizzo completo, l’età o il fidanzato di una presentatrice in TV o che cerca un rapido tutorial per piantare l’insalata nell’orto e nemmeno per confrontare i prezzi delle sneaker. Quei milioni (miliardi) di frettolose ricerche che succedono ogni secondo, ogni giorno, sono un prodotto di successo e soddisfacente per il loro segmento mondo. Per queste persone la ricerca è una commodity, non più importante di un pulsante per accendere la luce in cucina: basta che funzioni e sia facile e veloce. È da parte del b2b invece che sale il lamento: di quella infinitesimale parte (numericamente) di persone che usano il digitale e la ricerca come componente importante del loro lavoro: i cosiddetti lavoratori della conoscenza.
Questo segmento valuta (secondo la mia analisi, almeno) in modo sproporzionato il terzo elemento del bundle: il valore del contenuto, l’originalità, la reputazione, che deve fare da moltiplicatore per la propria attività. E che valuta come tempo perso (e denaro) non tanto il caricamento della pagina iniziale ma lo skimming di link necessario ora su Google, tra siti e articoli chiaramente ripetitivi, SEO-driven, di bassa reputazione, inframmezzato da un advertising che ha raggiunto il limite sopportabile dal consumer e quindi sorpassato quello accettabile dal professional. Un segmento che valuta la raccolta del dato, dell’informazione, della trasformazione del dato in formati diversi (una tabella, un foglio di calcolo, un benchmark, l’applicazione di framework particolari ai risultati delle ricerche online). Può aspettare 15 secondi per una risposta più articolata.
Oggi Perplexity (mi sbilancio), soprattutto nella versione pro a 20 euro al mese, è sicuramente il miglior «motore di ricerca» per qualcuno che cerca un buon investimento per la propria professione o attività «critical» (esempio: scrittura di tesi, faccetta con occhiolino). E si rivolge a qualcuno che è disposto a pagare, che in fondo abbiamo capito esistere, per quanto in numero relativamente esiguo: il numero di persone che paga per ChatGPT è qualcosa di nuovo per l’internet degli ultimi tempi.
Come succede spesso, il punto critico di ogni unbundling, di ogni sotto-segmentazione, è «quanti» (sono interessati al prodotto verticale) e «quanto» (sono disposti a pagare) per avere un prodotto specifico anziché il generalista, e «in quanto» (tempo) il suo competitor generalista cercherà di ucciderlo.
Di suo, Google potrebbe tecnicamente replicare Perplexity con uno sforzo non enorme, credo, e in parte lo sta facendo di già3, con test di risposte “riassuntive”, e l’inserimento di sempre più domande pre-suggerite per affinare una ricerca.
Credo però che il punto sia un altro: quanto è grande la fetta del mercato pubblicitario di Google che potrebbe essere conteso da ChatGPT o da Perplexity, posto che qualcuno ci metta davvero la pubblicità? Forse nemmeno tanto, Google è da sempre un’azienda B2C nel suo DNA e nel suo conto economico. I click più redditizi ad alto CPC sono quelli vicino all’acquisto (nel B2C). Google potrebbe pure lasciare perdere questo segmento, che non intacca significativamente il suo business di milioni di click al giorno ognuno a pochi centesimi di euro, tramite il quale ricava già 20 dollari al mese per ognuno di voi (sappiatelo) con l’advertising. Potrebbe anche rallentare definitivamente la intrapresa e molto parziale trasformazione in ChatGPT-like della sua interfaccia classica stampa-soldi, che in versione «riassunto» non consente di mettere decine di link a pagamento, e tende a non far cliccare gli utenti sui link.
Certo, se il modello Perplexity dovesse prevalere, l’internet B2B ne sarebbe trasformata. Buona parte della SEO e del content marketing avrebbe altre regole, un traffico molto più ridotto, un’intera catena del valore del settore ne uscirebbe irriconoscibile. Meno quantità di post tutti uguali, probabilmente. La lead generation, l’ecommerce B2B, la complessa fase di consideration attraverso comparatori e configuratori, niente sarebbe più lo stesso e buona parte del journey sarebbe assorbito dalla AI search. Poi, solo poi, potrebbe arrivare la pubblicità su Perplexity, e la notizia non buona è che forse costerebbe di più di quella su LinkedIn.
Il marketing insegnato dai negozianti
Copy che l’AI non immaginerà mai.
Ti ricordo che ilmarketinginsegnatodainegozianti.info è un progetto gonzo-collettivo a cui puoi contribuire senza pietà.
Segnalazioni varie
La settimana scorsa ho parlato del coraggio di chi ha inventato le Piadatine.
Ho scritto un pezzo sul magazine TendenzeOnline di GS1 circa la lenta digitalizzazione del B2B, citando dati di Netcomm, Ca’ Foscari e Marketing Arena.
Settimana scorsa ho parlato di come le crisi social vadano prevenute, curate e misurate, in 30 minuti (di video, non di tempo per curarle).
That’s all folks!
Grazie di aver letto fin qua, di questi tempi è un miracolo.
Per analizzare assieme la strategia, l’organizzazione e il budget marketing della tua azienda, o per essere sponsor come Credem basta rispondere a questa mail.
ciao, gluca
Grazie a Daniela Bollini per la solita paziente correzione della bozza e a Cristina Portolano per i separatori.
Quiz: a) Paesi Bassi (fonte).
È la teoria dell’adoption curve, in cui mi inceppai all’esame orale di marketing all’università.
(Ri)presentata questa settimana a Google I/O.