[È venerdì] La mucca verde – il purpose e la sostenibilità nella strategia di marketing
Il purpose funziona quando smette di essere una campagna e diventa un prodotto (e una community). Ci sono pure un gorilla e un elefante, naturalmente, nella stanza.
Niente da fare, è arrivato settembre sul serio, anche se fa caldissimo. Per fortuna ho call e non riunioni, e posso stare in pantaloncini corti sotto la camicia.
Oggi il venerdì più famoso del marketing (così, per tirarmela un po’) riprende le normali trasmissioni con un rant sul purpose marketing che si sviluppa a partire da uno speech per Fairtrade. Ed è uscito il mio secondo inserto audio [Taglio] – più info più sotto.
E c’è lo sponsor su cui dovete assolutamente cliccare: wethod, che presenta il nuovo Supernova 2025, superfigo se sei in/hai un’agenzia.
Torna il quiz, a grande richiesta. Eccolo.
Quanto costa il primo spot dopo la pausa nella trasmissione serale di Gerry Scotti, all’incirca?
a) 50k b) 75k c) 130k d) 190k
Risposta alla fine.
CI VEDIAMO AL SUPERNOVA AGENCIES IL 30 OTTOBRE?
Torna Supernova Agencies, l’evento organizzato dagli amici di wethod dedicato alle agenzie che hanno superato la fase “boutique” e che devono gestire team più grandi, più clienti, più progetti e, inevitabilmente, più complessità.
Sono davvero contento di essere tra gli speaker di questa quarta edizione: il 30 ottobre 2025, all’H-FARM Campus di Roncade (TV), ci ritroveremo per parlare di Autonomy, un termine che racchiude molteplici significati. Libertà, responsabilità, visione, organizzazione fino a nuove forme di autonomia offerte dalla tecnologia.
Cosa significa davvero essere autonomi nel lavoro di agenzia?
Non vedo l'ora di confrontarmi con professionisti e professioniste della comunicazione, del marketing e dell'innovazione, e ascoltarli in un programma ricco di interventi, casi concreti e spunti. Sarà l'occasione per scoprire nuove prospettive che possono fare la differenza.
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La mucca verde – il purpose e la sostenibilità nella strategia di marketing
Alla Coop, di sabato pomeriggio, ognuno recita il suo stanco copione: lista o app, sguardo perso, una mano al carrello, l’altra (quello sono io) al salvatempo.
È il regno del pilota automatico (salvo per quei poveri forzati degli sconti così ben descritti in Guarda le luci amore mio di Annie Ernaux): latte parzialmente scremato qualsiasi, passata quella in sconto, zucchine quelle-che-ci-sono.
Se a metà corsia ci fosse un gorilla, metà dei presenti non lo vedrebbe (non è una mia boutade letteraria, ma un vero episodio che ho raccontato in Svuota il carrello). Spesso la sostenibilità sugli scaffali è quel gorilla. C’è, ma non la vediamo. O meglio: non la vediamo nei sette secondi scarsi del famoso “primo momento della verità”. Non la vediamo perché non ci interessa? Perché non è abbastanza visibile? Perché è “ovunque” indistintamente?
Prima dell’estate a Fairtrade (ospitato a casa Emergency a Milano: “Diavolo di marketing neutralizzato in due strati di acqua santa”, ho esordito) mi hanno chiesto di elaborare sul tema, se la sostenibilità fosse ancora un asset strategico, oggi. Il post di oggi è dunque un’elaborazione sull’elaborazione.
La purpose è deceduta
Un passo indietro, triste ma necessario: il marketing ha avuto la sua stagione “purpose”, tutti a salvare il mondo delle mission aziendali, agenzie entusiaste di una nuova fonte di content (report ESG scintillanti), fidatevi, i pubblicitari saranno i nuovi crociati della rettitudine a impatto zero.
Le grandi società di consulenza hanno persino "inventato" una presunta legge economica, secondo cui le aziende con un purpose generavano più utili. Niente di vero e soprattutto verificabile, c’è però da dire che le aziende che facevano più utili avevano sicuramente più soldi e tempo da perdere con il purpose.
"Agencies have been guilty of promoting theories of advertising that they want to be true, rather than ones that actually are true. And there is no better example of this than brand ideals or purpose." (Richard Shotton, The Choice Factory)
Lo diceva anche Byron Sharp.
"L'adozione diffusa di purpose potrebbe portare a marchi troppo simili e di conseguenza ad essere presi di mira dai marchi del distributore". (marketingweek.com, “Purpose Could Be 'The Death of Brands', Warns Byron Sharp”)
Qualcuno si spingeva oltre (ambasciatore non porta pena):
"Le pubblicità di purpose sono la cosa peggiore che sia successa al settore dopo lo "Starburst". L'UNICO "scopo" di tutti gli annunci di un brand è aumentare il profitto. Questo è tutto.
Il modo migliore, davvero l'unico, per un brand di aiutare il pianeta è cessare la produzione e fallire". (copyranter.substack.com, “Non-Bad Ad Friday #8.” - Copyranter Two Point Zero)
Ok, niente più purpose, ma almeno la sostenibilità può essere un asset distintivo? Oggi tutti la comunicano, a parole, anche se più sommessamente, per non andare contro lo zio matto americano. Ma se tutti professano la stessa virtù, come ci si distingue? La mucca verde non spicca sullo sfondo verde.
Il 90% delle grandi aziende pubblica un report ESG; eppure, secondo ricerche citate da EY, solo circa metà delle persone percepisce l’impegno. Non è (solo) greenwashing: è colpa del rumore di fondo. Ogni buona intenzione annega tra affissioni, reel, display, volantini, cartellonistica in corsia, push dell’app. E con il retail media il caos potrebbe pure aumentare.
L'elefante nella stanza è questo: se davvero "la gente" vuole comprare etico, perché restiamo una minoranza? I report come Italiani Coop mostrano un popolo eletto del green, ma i dati di acquisto reali (SAP) dicono altro.
Prezzo “giusto”
Ecco, smettiamo di guardare al marketing della sostenibilità come a uno strato di marmellata sopra al pane. Dobbiamo ripensare il pane e quello che ci gira attorno.
Io terrei d’occhio la willingness to pay. Quanti sono davvero disposti a spendere di più? C’è sempre un gap tra ciò che dichiariamo al questionario e ciò che facciamo alla cassa (come l’80% che dice di guidare “meglio della media”). La tentazione del marketing è aggiungere un sovrapprezzo “morale”, tassando i consumatori più attenti e consapevoli. Certo, il prodotto sostenibile difficilmente può costare quanto quello tradizionale, ma anche il markup non può essere sempre lo stesso.
Vero è che il prodotto sostenibile difficilmente può costare uguale all’altro. Ma la politica del prezzo in Italia è la comparsa derelitta del grande show del marketing, e spesso non si capisce che basterebbe abbassare un po’ il prezzo per fare volumi estremamente più alti. E margini, alla fine. La domanda utile, più industriale che moralistica, è: dove sta il punto di elasticità? Se riduco un pelo il margine o lavoro per fasce/prezzi mirati, posso allargare molto la quantità? Servono test, non teologia: A/B di listini, bundle, formati, abbonamenti. E capire il canale giusto, quello che può valorizzare quel prezzo. Per esempio: i prodotti “responsabili” pesano, online, molto più della media alimentare. Se l’e-grocery in Italia vale, a seconda delle stime, il 2–4%, i prodotti responsabili arrivano attorno al 14% delle loro vendite via internet. Numeri piccoli in assoluto, ma con un rapporto interessante. La mia teoria è che quando l’attenzione cresce (search, schede prodotto, tempi lunghi di lettura), la promessa responsabile trova più spazio. Forse stiamo cercando di vincere la partita giusta sul campo sbagliato?
Orde di influencer pseudo-etici
E mentre litighiamo sul purpose, l’economia dell’attenzione va per orde. Mister Beast che vende cioccolato Fairtrade funziona non perché cita i KPI ESG, ma perché abilita un rituale (perché è lui, più onestamente): guardo, reagisco, compro “quello di Mister Beast”. Noi vecchi storciamo il naso (che schifo questo mondo, ma guarda ‘sto cret… ecc.) ma lì c’è un pezzo di manuale per l’epoca contemporanea: prodotto ad hoc + community + contagio batte claim + foto stock.
La morale è che scegliere una tribù significa accettare l'antipatia delle altre. L'alternativa – "piacere a tutti" – oggi equivale a non essere ascoltati da nessuno. Dobbiamo essere polarizzanti, ma con attenzione a non alienare la maggioranza dei nostri consumatori. Un lavoraccio, di cui ho parlato nel mio audio inserto [Taglio] di questa settimana.
Ma, a parte le pazzie dei creator, quando il claim di sostenibilità “funziona”? È così semplice che non serve a nulla come indicazione: quando è totale. Patagonia e Ben & Jerry’s mostrano che la coerenza, se coincide con la sostanza dell’impresa, è un asset. Ma non è uno strato di marmellata sul pane. È però un impegno incessante e per pochi. E quindi?
Un’idea, la butto lì
Io ho buttato un’idea alla platea: se non puoi essere un’azienda-purpose, forse – dico forse – puoi essere prodotto-purpose. Basta predicare in astratto e pensare invece a un-prodotto-uno di dimostrare una trasparenza radicale, in concreto: ingredienti, filiera, prezzo, pack, customer service. Come si fa, in pratica? Ho messo assieme una lista di idee da validare.
Parti dai cluster, non dalla “media”: ascolto, dati di ricerca, community già esistenti, creatori credibili (non necessariamente giganteschi).
Progetta il prodotto end-to-end: promessa, naming, pack, logistica, politica di prezzo, canali coerenti con quel pubblico.
Prova gusto, prova resa, prova durabilità. Le persone arrivano per il prodotto e restano per la responsabilità, non il contrario.
Sfrutta i momenti d’onda: stagionalità, collab, micro-trend. L’etica è un acceleratore solo se agganciata a rituali reali.
Prezzo come leva, non come timbro morale: sperimenta formule che spostino l’elasticità senza punire chi sceglie meglio (formati smart, ricariche, subscription, loyalty mirata).
Misura dove la promessa ha attenzione: e-commerce, D2C, marketplace verticali, retail specializzato. Lì la storia lunga si legge; in GDO, lavora su distintività visiva e visibilità fisica.
Il punto secondo me non è smettere di parlare di responsabilità sociale, ma spostarla di posto: dal keynote allo scontrino, dalla campagna al prodotto, dal “tutti” al “nostro pezzo di mondo”. Nel corridoio del latte al supermercato, la mucca verde continuerà a passare inosservata. Ma in una community che la apprezza, in una collab sensata, la mucca verde funziona, perché guardiamo la mucca e non il colore.
[Taglio], una volta ogni 15 giorni circa
[Taglio] è un format audio di circa 22 30 minuti, in uscita due volte al mese, che combina rassegna di notizie utili per il marketing, miei commenti fuori dal coro e formazione applicata. Il nome è solo un mantra personale: nel dubbio, taglio. Dopo un numero zero è uscito lunedì scorso il secondo episodio (in cui si parla di ristoranti vegani che chiudono, di rebranding disastrosi, di traffico rubato dalla AI e di podcast video).
Cose mie che potrebbero interessarvi
L’Avvenire di mercoledì, nell’inserto Economia Sociale, ha dedicato un paginone al mio libro (è anche questione di concorrenza tra culti, forse) che potete da oggi leggere anche online. A parte gli scherzi, è una lettura profonda di cui ringrazio Luca Miele.
Presento il mio libro giallo sui brand travestiti da culti in giro:
il 5 ottobre a Camposanto (Sul Serio, è in provincia di Modena) al Giardino Smeraldina
il 22 ottobre a Ravenna nei Flamingo Talks di Happy Minds
il 24 ottobre a Bari allo Storytelling Festival (con un talk dedicato)
il 13 novembre a Cuneo al festival Scrittorincittà
il 15 novembre a Padova al Cicap Fest
Altre date (Genova, Roma, Bologna e spero non troppe altre, che sono pigro) in arrivo.
Avete scaricato il mio free ebook Cose divertenti? Se volete sorridere ancora un po’ ci sono le puntate estive di questa newsletter.
Ci si becca venerdì prossimo. Per qualsiasi cosa, scrivetemi a gianluca@diegoli.com.
Ciao,
gluca
E grazie come sempre a Daniela Bollini per l’editing, a Cristina Portolano per i separatori e per la mappa del libro giallo. E a wethod per la sponsorizzazione.
Quiz: c) 130.000 euro circa. Fonte: ItaliaOggi.it