[È venerdì] Di marketing, agenzie, gare
e di marketer pigri, di riti assurdi e di risultati scadenti.
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Mentre siamo in trepidante attesa di sapere se la curva rimarrà piatta, ho voluto dire la mia sul futuro del rapporto tormentato tra marketer e agenzie. Ne parlo nel primo articolo.
Anche questa puntata contiene un articolo in cui io e SAS cerchiamo di divulgare i pilastri del marketing fondato sui dati, che poi è già qui.
Di marketing, agenzie, gare
Come ormai sapete, una delle mie passioni professionali è chiedere/rmi a cosa serve qualcosa, soprattutto quando la domanda sembra stupida. Da marketer la domanda è stata frequentemente posta rispetto al ruolo dell’agenzia o dei consulenti. Da consulente rispetto a certe figure del marketing in azienda.
Una delle cose interessanti del circo del marketing e della comunicazione è che è una delle poche attività aziendali che in molti casi sono “date completamente fuori”. Quasi nessuno oserebbe farlo con l’amministrazione o con il personale. Nel panorama italiano delle PMI il fenomeno si inserisce in uno strutturale nanismo congenito, per cui ci è stato sempre detto che piccolo è bello e snello, e quindi il marketing chissenefrega, ci pensa l’agenzia a fare il sito, il padrun a “fare tutto il marketing che io so cosa vogliono i miei clienti”. Oppure si mantengono all’interno attività perché si pensa di risparmiare due spicci (gli annunci di responsabile comunicazione con incluse capacità di uso di Photoshop), preferendo meri esecutori a figure in grado di orientare davvero la capacità strategica dell’azienda nei confronti del mercato. Esecutori in balia dei gusti personali del direttore generale, proprietario o quando va bene del direttore commerciale – salvo sporadiche e meravigliose eccezioni, come sempre.
Quindi, riassumendo: (poca) gente in azienda che deve fare mille cose diverse (e quindi niente davvero bene), non ha visione (perché non viene fatta crescere, sommersa di cataloghi da impaginare e simili “risparmi”). All’esterno di queste aziende: agenzie che sono nate soprattutto per eseguire, e vengono trattate come tali - mere esecutrici. In molti casi, è anche il loro massimo livello raggiungibile, ma questo perché ogni mercato si sviluppa a seconda della domanda. Mi chiedi un sito? Ti faccio un sito. “Non sono posizionato sui motori di ricerca.” Ti posiziono sui motori di ricerca. (Ti serve davvero? Tu non me l’hai chiesto, e quindi basta che mi paghi). E così via. Molte agenzie “locali” si adattano, qualcuna si ribella e finisce per lavorare con tutti tranne che con le aziende “locali”.
Ad alto livello (di budget) la questione è più complessa. C’entra l’IBM, intesa come la parola nella frase mantra della gen x di marketer “nessuno è mai stato licenziato per aver acquistato IBM”. “Se prendo un’agenzia milanese con più nomi in fila e magari una & nessuno mi rompe le scatole” (true story).
C’entra l’ecosistema malato per cui la filiera della pubblicità comprende intermediari tradizionali (ma anche il programmatic è sulla stessa strada) che in teoria dovrebbero costare meno dell’utilità (di potere di acquisto, di targeting) che danno, ma che molto spesso servono a mantenere il potere (interno all’azienda) e la visibilità (nel settore). Il marketer e il centro media deluxe sono alleati nei loro obiettivi, non coopetitors, molto spesso.
L’agenzia creativa invece (salvo meravigliose eccezioni) viene scelta tramite gare (in tempi lunghi e assurdi che già uccidono il 50% del ROI) innescate da brief surreali in cui poi necessariamente ci si misura con idee di ritorno, create di notte con google da volonterosi junior in agenzia ammaliati dalla stessa sigla con più nomi in fila, spesso totalmente slegate sia alla effettiva azionabilità delle stesse, sia soprattutto dagli obiettivi aziendali da perseguire.
Secondo me, il brief deve morire: sia perché viene redatto dal marketing in modo democristiano, spesso come nella vignetta sotto, ma anche perché oggi quello che è vero a gennaio può non essere più corretto a giugno. E perché l’idea vincente di gara non basta più a renderti il candidato ideale per l’azienda del futuro. Ne servono mille, tutti i giorni, guidate da microesperienze, journey, dati, osservazione.
Credo che solo un processo (anche creativo) collaborativo, condiviso, progressivo tra azienda e agenzia porti a risultati sopra la media e – a lungo termine - a un settore sano. Anziché lavorare per le 100 slide da gara, lavorare su vari workshop a team misti in cui si generano da soli obiettivi, risultati e attività ottimali. Il processo in cui l’agenzia ritira un brief, si ritira in conclave e torna con le standard tre idee è il male: dove spesso almeno una è solo un fermaposto per indirizzare sulle altre.
E invece ancora lì stiamo, e parte tutto con la gara: come se per scegliere un giocatore tra una rosa facessi fare 10 tiri da tre punti, e decidessi da quello se quel giocatore può entrare nel mio quintetto per l’NBA. Così queste gare vengono vinte non dal più adatto per il mio gioco, ma da quello che ha imparato a tirare benissimo i tiri da tre. O da quello fortunato.
Così per molte agenzie la scelta è se investire risorse in queste attività a fondo perduto e sperare di essere fortunati e addebitare i costi di questo gioco alle attività successive, oppure starne fuori a guardare. Senza parlare delle proto-agenzie, che sono specializzate in gare (da tre punti) senza avere altri giocatori poi da mettere in campo. In caso di vittoria “ci si attrezza”, al minor costo possibile sul mercato. Tanto anche nelle gare è il prezzo a guidare, non il presunto ritorno dell’investimento (che spesso non è nemmeno spannometricamente calcolato). Aziende, shame on us.
Credo che tutte queste modalità – lascito di un ecosistema primitivo come quello alla Madmen – prima o poi saranno spazzate via. (Ho detto prima o poi non tra cinque anni, perché le radici sono profondissime).
i budget, guidati dal digital e dai dati, saranno sempre più elastici e tattici, e quindi le agenzie dovranno essere elastiche nelle fee anch’esse, e guadagnare sul valore aggiunto valorizzato e condiviso e non su fantasmagoriche fee fisse, a percentuale dell’investito in adv, o in ore investite dalle persone.
i marketer sono sempre più messi in discussione. Scegliere IBM potrebbe non bastare più. Dovrà scegliere l’agenzia che fa il lavoro giusto, scommettendo sulle proprie capacità di selezione e rischiando in proprio, senza pararsi dietro gare pre-olimpiche e balletti di slide; diffidando di chi fa tutto.
Le grandi agenzie, con tutto il loro sovrappiù di layer organizzativi potrebbero essere messe in difficoltà (davvero, non come ora) da agenzie più snelle e distribuite, verticali, specializzate. La pandemia ha mostrato come tanti dei riti abituali non sono davvero necessari, ma che comunque vanno a incidere nelle fatture.
I centri media avranno ragione di essere? Non lo so. Ma me lo chiedo da decenni, e sono sempre lì. Quindi forse sì. Certo che quando il transato direttamente da Google, Facebook e altri supera il 70% e la TV va verso programmatic e addressable, rimane poco da rosicchiare nell’osso. Sono un po’ come i concessionari auto, nella mia visione: qual è la loro officina assistenza, qual è il valore aggiunto?
In un mondo in cui ognuno è un media, aspettiamoci un’esplosione di talent agency: in cui l’intermediazione, giocoforza, serve per districarsi in un ginepraio opaco - salvo piattaforme in programmatic per acquistare influencer peones
Se le aziende italiane vogliono competere in un contesto internazionale, avere “in casa” quello che fa i c̶a̶t̶a̶l̶o̶g̶h̶i̶ social non basta. Ci confrontiamo con aziende molto più veloci, con dipartimenti marketing con 10x persone, budget 20x soldi. Nessuna agenzia può salvarci per noi.
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Quando tutto cambia (il segreto è avere un journey pronto)
Avere relazioni e interazioni con clienti e prospect in modo coinvolgente e coordinato su tutti i canali è sempre più importante: ne abbiamo parlato nella newsletter sull’Omnichannel Customer Engagement. gli strumenti software da un lato sono diventati più efficaci nel disegnare "customer journey" personalizzati, e dall'altro i marketer hanno colto le opportunità offerte dal software per creare percorsi di ingaggio sempre più capillari.
Questo ha innescato un circolo virtuoso di innovazione che vediamo ogni giorno più pervasivo anche nelle aziende italiane: assistiamo allo sviluppo di modelli di propensione (quali sono, tra i miei clienti e prospect, quelli maggiormente interessati ad acquistare davvero il prodotto X?), alla ormai onnipresente attività di testing tra contenuti presentati sui canali digitali (meglio proporre una CTA con l'immagine del mio prodotto con sfondo azzurro o verde?), fino alla oggi inevitabile attività di misurazione e rendicontazione delle azioni di marketing: tutto con l'obiettivo, più o meno esplicito, di ottimizzare le interazioni con clienti e prospect.
Ma cosa significa esattamente ottimizzare? Significa creare per ognuno il journey con i contenuti più rilevanti, il pricing point ideale e dinamico per convincere un cliente a cliccare finalmente sul checkout del mio e-commerce - salvaguardando il più possibile i miei margini. Sommando strategia umana e potenza dei sistemi, tante aziende stanno percorrendo la strada giusta: ad ogni cliente corrisponde un journey ottimizzato, su misura e in un certo momento, in base alla profilazione che abbiamo realizzato sin lì su di lui e il suo comportamento.
Ma cosa succede se queste esigenze cambiano repentinamente nel tempo? Può essere un evento macroscopico della vita (nascita di un figlio, trasloco in una diversa città, inizio di un nuovo lavoro) o qualcosa di apparentemente meno rilevante: passare da un operatore telefonico ad un altro, assumere uno stile di vita diverso, sviluppare nuovi interessi, o un evento imprevedibile come la pandemia - tutto questo può influenzare radicalmente le abitudini di consumo di un individuo, e riflettersi sul suo atteggiamento verso i prodotti e servizi che vendiamo.
Che cosa accade allora ai nostri customer journey ottimizzati? Dovremo essere in grado di cogliere il cambiamento nel nostro consumatore e "spostarlo" su un diverso journey ottimale per le sue nuove esigenze.
È complesso, ma la chiave è andare per gradi: per prima cosa occorre rilevare tempestivamente che il nostro cliente ha ora necessità e desideri diversi; subito dopo occorre costruire il suo nuovo profilo. E per finire dovrà scattare in automatico il re-instradamento della customer experience di questo cliente verso il suo nuovo journey personalizzato. Dobbiamo quindi andare oltre l'ottimizzazione di customer journey individuali e riprendere la strategia a un livello più alto, in una sorta di "cabina di regia": ecco la cosiddetta "Journey Orchestration", la capacità di cogliere e reindirizzare velocemente ogni cliente e prospect tra journey diversi, inseguendo e se possibile anticipando con i giusti alert il cambiamento nei nostri consumatori.
Questo nuovo e più sofisticato livello di astrazione sulla customer experience richiede di rilevare tempestivamente esigenze emergenti, far scattare in automatico i re-instradamenti, e soprattutto mantenere il controllo della situazione con reporting e dashboard appropriate. Le soluzioni SAS di Customer Intelligence, con il tracciamento avanzato del comportamento degli utenti, gli analytics per identificare i cambiamenti chiave nelle loro abitudini, gli strumenti di reporting integrato usabili per i marketer con poco tempo, nascono proprio per queste esigenze: anticipare i nostri piani B, perché il consumatore, oggi, è più volubile che mai.
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Il quiz della settimana
Qual è il succo di frutta (100% frutta + nettare + bevande < 100%) preferito dagli italiani?
a) pesca b) pera c) albicocca d) ACE
Da leggere
Come sarà l’ufficio ideale del futuro
Come le piattaforme stanno divorando l’audio (mio articolo per Link)
Perché la purpose non è marketing
Nassim Taleb si è messo a spiegare la statistica su Youtube in dieci minuti ed è interessante
Commercianti wannabe copy
dal solito Tumblr.
That’s all folks!
Al solito: inoltra la mail, se ti è piaciuta.
In astinenza fino a venerdì prossimo? Ci sono le stories, quasi ogni giorno.
xxx, gluca
Quiz: a) pesca
Se sei nuovə qui, sono Gianluca Diegoli e mi occupo di consulenza su strategia di marketing e di vendita digitale, (e)commerce e D2C.
Bocconiano anomalo, proud generation X member, smontatore di panacee.
le attività noiose diventano perversamente molto meno noiose se ci si concentra molto su di esse. — David Foster Wallace
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Ho scritto qualche libro, ma l’ultimo (Svuota il Carrello) è quello che mi rappresenta di più. Insegno in IULM e in Master. Ho anche creato un mio corso online di marketing (e non di marketing online). Da qui c’è un 10% di sconto aggiuntivo.
Ho co-fondato Digital Update e con altre due tipe più smart di me ho avuto l’idea del primo FreelanceCamp. Ho creato canvas e un manifesto per la trasformazione del marketing. Questa newsletter è la sorella gemella del blog che scrivo dal 2004.
Questa newsletter non potrebbe esistere senza Readwise (da qui hai un mese di prova gratis) e senza Refind.