Ho provato a far rispondere ChatGPT a due domande chiuse del mio esame a IULM: le ha indovinate brillantemente.
CairoRCS Media ha inaugurato qualcosa che assomiglia a un self service ads, e la procedura di iscrizione fa abbastanza tenerezza.
Sto usando Bing da iPhone da una settimana e sono ancora vivo.
Sono entrato nel funnel dei buoni pasto per partite IVA su Instagram e tutti – in particolare Edenred – vogliono telefonarmi (ah ah), io li voglio acquistare e basta, non voglio parlare con nessuno.
Ho preso un noleggio a lungo termine: prima della firma ti chiamano tutti i giorni, dopo entri in un limbo in cui il tracking della tua pratica è nelle nebbie.
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Community tra romanticismo e risultati
Come in ogni ciclo di hype che si rispetti, la parola “community” ha avuto lontani e lunghi momenti di gloria e recenti momenti di oblio. E dopo anni di polvere accumulata, più o meno casualmente da qualche settimana si ripete nella mia attività professionale – che definisco “marketing strategico in un mondo digitale” – la necessità/volontà/convenienza di creare/attivare/rivitalizzare community. Qualunque cosa significhi, in effetti, nell’ecosistema digitale e no di oggi. TikTok è una TV, si sa, ma i suoi creator possono essere considerati leader di micro-community, e/o community leader-based? Le pagine di meme di Instagram, attese come oracoli dai follower, possono esserlo? E le pagine dei divulgatori, con le loro polemiche perfino nel – un tempo pacioso e adorante – thread dei commenti di Instagram? Perfino magazine sportivi, con i loro commenti agé di Disqus, possono dare origine a community?
Le community sono oggetti molto più complessi e poliformi oggi, rispetto ai libri degli anni ’10 che le descrivevano come forum di appassionati, spesso in modo un po’ ingenuo. Si sono ibridate con forme diverse: brand, siti, influencer. Prendiamo ad esempio La Giornata Tipo, che tutti considerano per il basket “la community” numero uno. Ha un profilo Instagram (la miccia delle discussioni, intrattenimento), un gruppo Facebook (l’agorà degli esperti) e un sito (il long form, la tavola della legge): è un publisher o una community o entrambe le cose?
C’è da dire che io, nel mio intimo, considero la formazione di community l’unico vero pregio di internet, l’unica funzione davvero insostituibile, quella per cui domani sarei disperato se venisse a mancare, e le penso di default nella versione romantica e primordiale in cui tutti contribuiscono e tutti ne hanno un ritorno. Ma, come si sa, quello che vedi tu importa, soprattutto nel marketing, fino a un certo punto. Anzi, molto spesso ti fa andare fuori strada. Ho imparato che le persone sono talmente diverse e i micro-ambienti così trincerati nelle pieghe della rete che definire dei percorsi o delle necessità standard sulla base di ciò che vedi direttamente è quasi sempre sbagliato. Ho imparato che le persone non hanno nel DNA, di default, quella spinta al sharing is caring che animava le prime comunità online. I free rider del buffet di internet, come nella vita, sono la stragrande maggioranza – se c’è qualcosa gratis, lo prendo, poi si vedrà.
L’altra regola che funziona sempre è che dove c’è gente, il marketing arriverà, con risultati più o meno soddisfacenti per tutti, spesso meno, qualche volta più. Si è detto spesso che “creare community” non è possibile, perché se una community fosse “necessaria” si sarebbe già formata spontaneamente. Anche questo, però, è vero fino a un certo punto. A volte l’intervento del brand può essere win-win con l’organizzazione di relazioni spontanee (o spintanee, direbbe un mio amico).
La grande sfida per ogni community è la continuità. La continuità è messa in discussione dalla ubiqua mancanza di attenzione, dalla sua progressiva algoritmizzazione che fa spesso sì che una community “takes it all” e che specularmente si formino centinaia di gruppi morti su Facebook.
C’è un paper interessante di McKinsey, scritto ovviamente in lingua mckinseiana, ma che coglie più punti critici con un framework (ovviamente), preceduto da una visione “storica” (da prendere con le molle, ma molto slide-izzabile).
Misurare e prevedere quanto una community si svilupperà è un esercizio ancora più difficile, una scommessa che spesso però siamo chiamati a compiere o a (s)consigliare. Alla fine sono arrivato a uno schema mentale di questo tipo:
Community = incentivo alla partecipazione / Friction di ingresso (visibilità) x Friction del ritorno
Quando progettiamo, dobbiamo massimizzare il numeratore e minimizzare il denominatore. Probabilmente dovremmo mettere noi (il brand in questo caso) l’incentivo iniziale, in attesa che l’incentivo ongoing sia user generated, e mettere in conto che questo non sarà quasi mai sufficiente ad autoalimentarsi. Il denominatore è altrettanto importante, però. La friction di ingresso è quello che spesso fa fallire le community “own media” (siti, app, ecc.). Ti costa così tanto in termini di sforzo (“facciamo un megaconcorso!”) far entrare le persone che quasi mai sei disposto a incentivare sufficientemente nel numeratore, anche se i vantaggi nell’epoca del first party data sono e saranno notevoli. Molto spesso gli incentivi possono essere “immateriali”, ma quasi mai quanto lo immaginano i brand, anche quelli con il “love” davanti. La friction del ritorno è invece sottovalutata, nello sforzo di “popolare” un luogo come primo obiettivo. Ma un conto è trasportare in un luogo le persone, un conto che ci vogliano ritornare – o si ricordino di. Su questo ci sono poche modalità su cui agire: se è un forum aperto, puntare sulla SEO (le persone tornano quando hanno un problema e lo googlano, tipo Skuola.net, automotive, telco e simili); se è Facebook o Reddit, puntare sulla piattaforma (notifiche di messaggi, notifiche di risposte ai messaggi, engagement ossessivo, ecc.); se è una community chiusa, puntare sulla vecchia mail, che riporti alle discussioni.
In ogni caso, le persone, oggi, difficilmente tornano spontaneamente. La morte delle community aziendali owned, anni fa, si spiega, secondo me, più con la crescita del denominatore che con il calo del numeratore. Si spiega anche con la facilità di accumulare vanity metrics di community più blande, sulle piattaforme, per cui magari abbiamo chiuso una newsletter per “pochi” per concentrarci su di una pagina social con numero superiore di iscritti formali, ma con coinvolgimento molto più limitato.
Ancora più difficile è stabilire il ritorno di un investimento. Una community non si colloca facilmente nel funnel di marketing, dà risultati quando va bene a medio termine, genera spesso un passaparola non tracciabile nelle dashboard, produce esternalità positive su conoscenza del target e innovazione di prodotto. Spesso brand forti producono community forti, più che il contrario: la relazione causa-effetto è di difficile interpretazione.
Lascerei un attimo questi plus in secondo piano. Sul ritorno ho un mio schema imperfetto, una specie di CPM, CPC e CPA, in fin dei conti, per rendere almeno un po’ confrontabili le mele dell’ads con le pere della community (e in tempi di esplosione dei costi del CPC e del CPM, sicuramente servono i confronti imperfetti). Non c’è la misurazione dell’engagement, che considero un requisito e non un risultato.
(Costo di incentivo, moderazione e animazione) / (Utenti attivi (almeno in lettura) a 30 giorni)
(Costo di incentivo, moderazione e animazione) / (Traffico/vendite verso sito)
Non so se ci siano brand che usano già normalmente valutazioni di questo tipo o simili, in caso mi piacerebbe saperlo. Scrivetemi.
Data-driven quote
La confluenza tra marketing, dati e stack martech è la mia passione e lavoro attuale, in attesa che il corso di scrittura creativa mi renda uno scrittore milionario. Ho deciso che ogni settimana metterò un estratto dalle mie letture.
Il quiz della settimana
Quale è il consumo di cosmetici pro capite ogni anno in Italia?
a) 120 euro b) 200 euro c) 490 euro
Negozianti
Grazie Daniela. Forse funziona meglio delle donazioni alle newsletter, del resto.
Link della settimana
Cose scritte da me:
Nascita e morte dei brand creati da influencer
Il funnel è morto? Sì e no
Lo stato dell’ecommerce in senso lato
Cose altrui:
Un’ennesima ricerca su cosa funziona in uno spot TV
Un ragionamento sensato sui resi nell’ecommerce e altro ancora
Appuntamenti
Novità e drammi di Mailchimp: un webinar con Alessandra Farabegoli su Digital Update
That’s all folks!
Alla prossima settimana!
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ciao, gluca
Grazie a Daniela Bollini per avere corretto la bozza (eventuali typo sono miei, aggiunti dopo), e a Cristina Portolano per i separatori d’artista.
Quiz: b) 200 euro dice il Sole 24 Ore