[È venerdì] Lo schema degli stracchini volanti
spiega come il marketing batte quasi sempre il prodotto.
Molti in questi giorni nelle newsletter parlano di metaverso, NFT, web3, eccetera. Io sono per aspettare che si calmino le acque, si abbassi la polvere, e insomma tutte le altre metafore del caso per dire che chi vivrà vedrà. Piuttosto mi incuriosiscono molto i casi strani, quei calabroni che non possono volare e invece. In questo caso a non poter volare è lo stracchino, eppure lì lo stracchino vola da tempo, e in stormo. Avete capito? Credo di sì, e potrei far finire qui la newsletter.
Che invece riprende dopo l’articolo della serie data-driven marketing in collaborazione con SAS.
In collaborazione con
Non tutto ciò che è importante è misurabile (facilmente)
Per esempio, la creazione di awareness è importante nel medio e lungo periodo per i brand, che però faticano a essere misurati dai consueti KPI digitali. È possibile lavorare con il data driven marketing anche nella parte di branding? Come misurare i risultati?
Comprendere le performance delle iniziative di marketing è il primo (indispensabile) passo per poterle migliorare. Assistiamo quindi a un proliferare di strumenti per il monitoraggio dell’attribution – per ripartire meglio il mio budget pubblicitario - o lo sviluppo di dashboard per monitorare i funnel – per capire il ritorno della sequenza di pagine, form e messaggi che utilizzo. Sono strumenti interessanti, ma tattici.
Il presidio dei canali digitali è oggi invece una componente strategica del business, e spesso ne costituisce la colonna portante. L’attribution e il monitoraggio del funnel devono essere potenziati.
L’attribution, nata come misurazione dell’importanza relativa dei diversi touchpoint advertising nei confronti di un obiettivo di business (vendita, o “conversione”), deve essere integrata inserendo le azioni di marketing diretto, soprattutto se queste sono personalizzate per micro-segmenti di clienti.
Quindi è necessario passare da un’attribuzione intesa come meramente pubblicitaria a un’attribuzione che comprenda specifiche azioni svolte direttamente tra brand e clienti. Si deve quindi usare uno strumento più sofisticato che misuri tutti i touchpoint di digital engagement.
Il monitoraggio dei funnel può essere ancor più utile se passiamo da una visualizzazione aggregata su numeri relativi agli step e ai touchpoint all’analisi dei comportamenti del singolo. Capire perché ha interagito in quel modo con una parte del funnel, cosa lo accomuna ad altri visitatori, che contenuti ad hoc posso proporgli per farlo tornare da me.
Sistemata l’operatività – gli strumenti tattici precedenti – altre metriche entrano in gioco: la brand awareness, ad esempio, diventa asset fondamentale per non cadere vittima della “guerra dei prezzi” in assenza di posizionamento distintivo nella percezione dei consumatori, ma può sfuggire a una misurazione solo tattica, di breve periodo.
Per misurare questi fenomeni serve definire dei parametri che permettano di misurarne l’andamento nel tempo. Per la brand awareness un primo passo potrebbe essere raccogliere dati dai web analytics e misurare il traffico organico dai motori di ricerca; chi effettivamente sta cercando il nostro brand – non soltanto una tipologia di prodotti come quella che vendiamo anche noi.
Proviamo poi a misurare il comportamento di chi arriva, in base agli esiti di questi atterraggi sul mio sito: chi ha comprato, chi si è soffermato a leggere contenuti, chi ha fatto “bounce”.
Ora mettiamo questo comportamento in relazione con i dati di profilo nel nostro CRM – almeno per i clienti registrati. L’intelligenza artificiale viene in aiuto: possiamo raccogliere questi insight da un numero limitato di clienti e mapparlo poi su un panel più ampio di individui e ottenere anche proiezioni predittive.
Se misuriamo periodicamente queste proiezioni, integrandole con dati qualitativi come il sentiment, estratti da sondaggi, recensioni e altro, possiamo rispondere al quesito di partenza: come si modifica l’awareness in base alle mie azioni di marketing e advertising.
Scarica il Manifesto del CMO Data Driven realizzato in collaborazione con SAS per scoprire i dieci punti che contraddistinguono il marketing odierno.
Dunque, lo stracchino?
Ah, l’Italia, il paese delle diversità gastronomiche, delle specialità culinarie, ma chi ci ammazza a noi, a parte i francesi, ovviamente, maudits. Eppure il formaggio, a parte quei due o tre nomi (Parmigiano ecc.), è ancora molto unbranded. Il formaggio da noi è nome del tipo di formaggio, spesso si compra ancora sfuso al banco – fatto storytellicamente dal caseificio a chilometro zero, magari certificato DOP dall’apposito consorzio. Oppure si compra più o meno a caso, nel bancone dei freschi, con la solita umana algoritmica formula del “chi diavolo è questo?” per “quanto è in sconto?” con qualche plus del tipo “foto di mucca sulla confezione” o “rassicurazione nazionalista che nessuna goccia di latte è straniera”, qualunque cosa significhi. Il vincitore poi viene confrontato con la marca del supermercato, come in finale di Champions.
Da noi è più famoso il nome del formaggio che il marchio del formaggio. Quindi tre o quattro marchi, che di solito discendono dalla nobiltà televisiva (Galbani), e poi una marea di produttori semisconosciuti e sostanzialmente indifferenziati nella mente di chi acquista. Salvo per la minoranza di connoisseur (vi rimando al mio libro per l’approfondimento del termine) e per chi fa il formaggio, dai quali a noi mortali viene spiegata minuziosamente la differenza – per esempio – tra asiago, taleggio e montasio. Non deve essere ancora molto chiaro perché Google è pieno di post di questo tipo.
O tra formaggio d’alpeggio e formaggio di pianura.
Il formaggio d’alpeggio presenterà sempre un gusto aromatico intenso frutto delle erbe alpine forti ricche di essenze e pigmenti di cui si ciba l’animale. In bocca apporterà sempre un’esplosione di aromi che ricordano i fiori ed un retrogusto amarognolo di pregio che ricorda la stalla. (da Quora)
Boh, sarà.
In ogni caso, in questo oceano rosso di formaggi sfusi o quasi, c’è chi si è conquistato un ruolo di rilievo: è il caso di Nonno Nanni (NN). La sua storia (finta o vera non importa) racconta molto di un percorso per certi versi simile a quello dei Bibanesi, già visti in un’altra puntata.
Ci sono sempre alcuni punti ricorrenti nelle storie italiane di successo gastronomico di massa.
Una storia di un avo laborioso e molto molto intelligente, che però non ha svelato a nessun compaesano i suoi segreti (diciamo che è improbabile, perché cento anni fa si discuteva poco di segreti industriali nelle stalle mentre si mungeva, credo).
Una narrazione che rimandi ai vecchi tempi andati, in cui le cose erano più naturali (qualunque cosa significhi naturali). Magari c’erano più pesticidi nel latte, ma a noi piace pensarla così. Era tutto più genuino e non rompeteci le scatole. In cui si faceva l’amore nei campi (l’avete visto lo spot, no?).
Inflessibili corporate guideline: font rigorosi, immagini e colori, sempre gli stessi, roba da P&G, non come il contadino mani nel latte e foglio A4 attaccato alla vetrina dello spaccio alpino. Nonno Nanni, nemmeno lo leggi, lo vedi.
E quella musica: da sempre fa la-la-la-la-la-din-don-dan-la-la-la. Il brand sound design è sempre molto sottovalutato.
Una ripetizione ossessiva dello stesso concetto, anche il più cringe e insensato razionalmente: “Nonno Nanni, il nonno più buono che c’è”, “La bontà in ogni gesto”.
Non serve avere sempre idee buone, serve ripetere, ripetere, ripetere: allo sfinimento, con budget media a tanti zeri che il 99% dei colleghi fondatori di aziende familiari del nord est ti-darebbe del matto. Ricamando senza sosta sul super-parodiato spot, intriso di bontà, famiglie, risate a tavola, borghetti idealizzati, cieli azzurri e felicità strabordante; e stracchini volanti, ovviamente. E quando sei famoso, arrivano a prenderti in giro: se sei bravo, sai che è tutto a tuo vantaggio. Non hai parodie se non sei conosciuto: un KPI mai smentito.
L’arbitraggio tra l’artigianale percepito e l’industriale concretizzato. “Li incartiamo a mano”, dice la signora (ma “ne facciamo 80.000 al giorno”, dice il fondatore). “Ma progettiamo noi le macchine, in modo da preservare l’artigianalità” dice il manager. “Un moderno gusto antico” dice la marketing manager. Il luogo dello stabilimento è spesso raccontato nei video come fosse un idilliaco luogo in cui il latte fluisce al posto dei torrenti, un po’ come La Valle degli Orti, dove il minestrone cresce già surgelato. A noi consumatori piace pensare di comprare prodotti creati in montagna, nella malga, invece che nella densamente abitata piana veneta o emiliana, ma pagandoli il prezzo del supermercato, magari in sottocosto. Ma 30.000 metri quadri mica ci stanno, in montagna (non è una critica la mia, del resto ci sono ben 5.000 metri quadrati di fotovoltaico sul tetto, un’azienda meritevole dal punto di vista della sostenibilità, bisogna dirlo).
E alla fine, i risultati danno loro ragione.
L’orgoglio del dipendente nel fare “a mano” anche un pezzo di lavorazione minimo. Lasciare andare uno stracchino nel mondo. “Vai stracchino, rendimi orgoglioso!”
Ma soprattutto la strategia Cavallo di Troia: avere UN (1) prodotto di punta, lo stracchino in questo caso (25% di quota di mercato negli stracchini e simili). Il prodotto entra nella GDO, la colonizza con anche un po’ di trade e promozioni, fa girare il marchio attraverso la display fisica, si fa spazio a sportellate e apre gli scaffali per gli altri: lo squaquerello (nome discutibile) si insinua fino a spodestare i legittimi ma anonimi squaqueroni DOP romagnoli.
Community e hashtag, per finire, sono secondo me tempo perso nel modello NN: le fanno solo per fare i moderni, come la loro community online in cui si conquistano gettoni per aggiudicarsi una penna Nonno Nanni (premio entry) e che non mi sembra un gran successo (anche il tono di voce è un po’ strano, e chi lo sapeva che il nonno fosse stato in tipo McKinsey?).
Ecco il pattern virtuoso NN: mental availability + penetrazione scaffale. È la strada che molte aziende, rinunciando al piccolo è bello perché per noi conta solo il prodotto e abbiamo il consorzio che si occupa di marketing, probabilmente dovrebbero esplorare, accorparsi ed essere finanziate dai venture capital, invece di inseguire improbabili unicorni digitali made in Italy. E il prodotto: deve essere buono, ovviamente1. Ma è condizione necessaria, non sufficiente. Probabilmente lo stracchino NN non è il più buono in assoluto. È il best product-market fit per people (who) make “fast and frugal” decisions to arrive at “good enough” choices. Servono stracchini volanti su cieli azzurri e prati verdi ripetuti infinite volte, per molto tempo, che ci convincano a comprare un premium price inserito in una storia, in un marchio, in un nonno ideale. Non certo quello che la Grande Agenzia Creativa sfoggerebbe a Cannes, ma di sicuro quello che funziona.
(E attenzione, ora è arrivata/tornata la nonna.)
Il quiz della settimana
Nel 2020, in Italia, si è venduto in supermercato più a) crescenza-stracchino, b) ricotta, c) mascarpone o d) spalmabile-jocca-ecc.?
Link e appuntamenti
Ah, la Scuola per Digital Strategist 2022-2023 è a prezzo – ancora per poco – ridotto, in più hai un ulteriore 10% di sconto per chi legge la newsletter, parola d’ordine ovviamente VENERDÌ. Parlane a chi sai tu in azienda. Se l’azienda sei tu, risparmi tempo, in effetti.
Trasformazione digitale e b2b, mix impossibile? Ne parlo in un webinar con Giorgio Soffiato, per il ciclo Digital Talks di Registro .it. Ci si iscrive qui.
Un articolo sui bundle che dovrebbe essere insegnato all’università.
La personalizzazione (sui dati di terza parte) è un mito?
È uscito l’imperdibile Osservatorio Email Marketing di MailUp
Negozianti
Nomen omen.
That’s all folks!
Anche per questa settimana è tutto. Se vuoi segui le mie storie post-capitaliste su Instagram.
ciao!
gluca
Quiz: b) ricotta is the winner! (14%, molto dietro alla mozzarella, con il 50% del mercato dei formaggi freschi)
Grazie alla professionale correzione bozze di Daniela.
Osservazione personale: non è detto che il caseificio a km zero faccia buoni stracchini perché piccolo e vicino, a volte è vero il contrario. Viva “l’arte del casaro applicata alle macchine” (cit.).