Questa settimana siamo entrati nel vivo delle mie lezioni alla IULM: dopo aver trattato la “teoria”, invito ospiti a parlare della “realtà”, invitando le studentesse e gli studenti a collegare i puntini, a farsi un’idea, a ragionare con la propria testa mettendo sempre in discussione quello che leggono sulla stampa di settore, in un universo, come quello dell’advertising e del digitale, in cui non è facile capire dove inizia la notizia e dove finisce il comunicato stampa, e se “gli studi” non siano inficiati da qualche conflitto di interesse (quasi sempre).
Uno studente ha alzato la mano e ha detto: “Ma se questa cosa alla fine non serve, perché la si fa?”. Ho sorriso: accelerare la fine dell’innocenza è un obiettivo non detto del mio corso.
Il paradosso del talent, content creator & c.
Nei giorni scorsi alcune persone che conosco hanno sollevato un dibattito interessante: riassumo un po’ sbrigativamente in “ma le persone che mi seguono per i contenuti perché se ne vanno - o ci rimangono male - quando mostro cosa vendo per vivere?”. Trovate le stories da qui.
La prendo un po’ alla lontana, ma per capire come siamo arrivati a oggi. Era un mondo in cui l’informazione era scarsa, soprattutto per chi si interessava di argomenti non propriamente di massa. Questa situazione non era un problema per chi si accontenta(va) di guardare il Tg1 per conoscere le notizie, o degli spot per comprare i prodotti. C’erano i giornali che, con certi limiti, supplivano a quegli interessi di secondo livello: se guardate la parete dell’edicola ne vedete ancora i ruderi dell’età dell’oro (riviste – invento, ma per capirci – come “Le mie armi”, “Modellini di treni”, “Linux spiegato”, ecc.).
La rete ha riempito questa coda lunga. Anzi, l’ha più che riempita. Il problema è diventato l’opposto: scegliere l’informazione, non cercarla. Quando ho iniziato a scrivere di marketing sul blog da cui molto dopo è poi nata la newsletter che state leggendo, nel 2004, le fonti non istituzionali e non prezzolate, direttamente o indirettamente, si contavano sulle dita di due mani. Infatti ci conoscevamo più o meno tutti.
Nessuno pensava di farsi pagare, al tempo, per scrivere o “postare” checchessia. E nemmeno – orrore! – di farsi sponsorizzare. I “venduti” venivano additati al pubblico ludibrio, come si dice. Pubblico ludibrio di circa 1.000 persone, in realtà, che per lo più si leggevano tra di loro.
“Internet is full, go away” diceva una vignetta tanti anni fa. Ma non era vero, era ancora vuota, rispetto a oggi. Fast forward: fine dei blog, nascita dei social, sdoganamento ed esaltazione della talent/creator/celebrity economy, crisi dell’editoria, monopolizzazione della Rete e spostamento della pubblicità su Meta e Google, rinascita delle newsletter, avvento dei podcast.
Tutto è abbondante, e sostituibile. Essere indispensabili e unici è impossibile. Nel frattempo arrivava a compimento la grande illusione semantica perpetuata dalle piattaforme. Amici, fan, follower, iscritti. Diventava sempre più facile farsi “seguire”, sempre meno friction all’ingresso, detto più tecnicamente. Perché alle piattaforme piace viziare i propri “clienti” con numeri con molti zeri. Ma se stampi soldi, questi valgono meno – nemmeno anni di scellerato grillismo economico fanno cambiare questa realtà di fondo. Sono abbastanza anziano da ricordare con meraviglia e gioia il momento in cui ricevetti una banconota jugoslava da dieci milioni di dinari. Non sapevo il suo reale valore (che era poco).
Nel mondo aziendale la caccia ai follower era quasi sempre slegata da obiettivi concreti, era questione di vanità, carriera, ignoranza (vedi l’introduzione di oggi), nel mondo dei creator era invece questione fondamentale. I follower sono monetizzabili.
Come? Vendendo visibilità a chi è in caccia di visibilità in un mondo che premia l’intrattenimento. I brand in generale hanno più soldi che capacità di intrattenimento. E quindi nascono “le collaborazioni”, nome pudico per la vendita delle stories, dei post, dei Reel, dei tiktok. Molti creator vendono banconote da dieci milioni di dinari a brand che per il momento li ricevono chi con gioia, chi con rassegnazione del fatto che, se il pubblico vuole intrattenimento, per far vedere il tuo brand da lì devi passare. (Oppure creando linee a proprio nome (sto scrivendo un pezzo per Link su questo, uscirà a inizio 2023. A volte facendo tutte e due le cose.)
Il talent è oggi il cancello blindato sul pubblico: viene pagato per questo, non importa la credibilità che ha sul prodotto, non importa se il brand collaborato poi cresca davvero o no (e chi lo misura?). Sfrutta un bug nel sistema di marketing, che di solito è situato nell’anello meno misurabile, e lo fa benissimo. Si può parlare – e dobbiamo – dello stress da creator, ma non possiamo dire che una stories sponsorizzata, la maggior parte delle volte, sia un contenuto complesso per una celebrity. Il numero di stories ogni giorno lo dimostra. È il delitto perfetto: la produzione costa relativamente poco, si vende al prezzo nominale, il risultato è poco misurabile.
Farsi pagare per i contenuti online? Non in Italia, almeno. Ho pensato alcune volte di mettere a pagamento la mia newsletter, ma ogni volta dal mio Excel non usciva niente di buono. Perché? Per il semplice motivo che c’è un gradino altissimo da zero euro a un euro, molto più alto che da uno a due. Un’elasticità al prezzo infinita, direbbe l’economista in me. Rimane il punto “attrarre persone per vendere qualcos’altro”.
Rimane l’opzione di usare i contenuti per vendere i propri servizi, appunto. Siamo tornati al punto dolente di partenza. Tempo fa ho scritto la trappola del content marketing e il paradosso del content: tu attrai persone pensando che sia un modo per vendergli poi qualcosa (buona parte della SEO è basata su questo mantra). Ma anche questa è un’illusione ottica: alla gente oggi interessa il «qui e ora, adesso», poi si vedrà. Vale per uno stucchevole articolo SEO, per la newsletter settimanale di approfondimento di Digital Update o per una storia che assicura un secondo di intrattenimento. Qualcuno, una minima parte, rimarrà tanto da capire cosa fai e ancora meno persone si interesseranno a cosa vendi. Altri sono lì per leggere a gratis e basta.
E c’è anche il fatto che a volte, a quella banconota dai tanti zeri, ci abbiamo creduto pure noi (non mi considero un creator, ma uso il plurale per comodità). Pensiamo che tutti i nostri follower ci amino talmente tanto da comprare il nostro libro, e non è così. Beatrice Mautino, nota su Instagram come @divagatrice, e una delle poche fonti serie non “compromesse” da collaborazioni varie, comunica di aver venduto in quattro anni 80.000 copie, su 250.000 follower, ed è un caso unico di community affezionata, quasi ossessiva. Nella norma il 5%, più probabilmente il 2% lo farà. (Questo stende un’ombra inquietante sul futuro dell’informazione indipendente, soprattutto dalla pubblicità creator-based, perché certo non puoi parlare male dei tuoi sponsor. Ma è altro tema).
Perché, come sa chi gestisce un CRM aziendale, i clienti non sono tutti uguali. E nemmeno i follower. Nessuna azienda sana basa un business sul numero di clienti e basta. I clienti si pesano, non si contano. Ma le piattaforme ci hanno convinto del contrario, con la sostituzione del vero significato di follower con “qualcuno che ha pigiato il tasto Segui”: minore è la friction, minore è il valore assoluto dei numeri in ingresso. Scambiereste una newsletter da 11.000 iscritti con una pagina Instagram da centomila? Io no.
Tornando al punto iniziale, in generale, dobbiamo arrenderci. A cosa?
Al fatto che man mano vengono pubblicati ulteriori contenuti, i nostri valgono meno. Siamo sostituibili. È l’inflazione del creator.
Che un algoritmo prima o poi aiuterà i follower a farsi largo nell’abbondanza, e che quindi con molti dei follower non avremo più nessun contatto. Quando un follower che ti vede poco riceve un bonario avviso di pagamento, scatta l’unfollow.
Che i nostri follower non sono 100% nostri, ma sono “nostri” in una percentuale molto diversa tra loro: 0,1% “ti seguirebbero ovunque”, 5% “ti darebbero una mano”, 50% “gli mancheresti per un po’”, 44% “chi sei?”. Non ci credete? Provate a mettere un “offrimi un caffè” come offerta libera e contate.
Che chi “vende” i propri follower ai brand queste considerazioni non le comunica.
Che è normale, ed è sano per tutti, che qualcuno se ne vada quando lo costringi a pagare o anche solo gli presenti i tuoi servizi. Il free riding è un concetto piuttosto famoso in economia: sono quelli che non pagano le tasse ma poi si lamentano della mensa dell’asilo. Il free riding è diventato una parte fondante della rete: le grandi piattaforme pensano di ottenere numeri e dati rivendibili ospitandoli, i free rider pensano di scroccare qualcosa. Tutti sono convinti dell’affare.
Io, romanticamente, continuo a pensare che bisogna accettare che creare contenuti e divulgarli sia molto spesso un hobby non ripagato nel tempo speso. Confidando in un karma digitale che può esserci o no. Tutto il resto sul content marketing l’ho detto qui: si chiamava, paradossalmente, “il content marketing è un dono”
PS: qualcuno potrebbe dire che anche su questa newsletter c’è la pubblicità. Verissimo. Tuttavia non sempre (se vuoi sponsorizzare, vedi qui!), e comunque non copre le ore e ore di ricerca e scrittura settimanale, fidatevi. Tuttavia la ritengo un compromesso utile a tutti, perché scelgo chi sponsorizza per il target: nel caso chi legge non lo accetti, amen, ce ne sono tante altre di newsletter da consultare. Sono pronto agli addii.
Quiz della settimana
Quanto guadagna a post/stories Chiara Ferragni?
a) circa 50.000 euro b) circa 90.000 euro c) circa 130.000 euro
Link e altro
Spoiler: sarò a BTO per un panel su Martech e Privacy, ospiti ancora segreti. Se ci siete, passate a salutare. Info qui.
Occasione per giovani: il Master UPA in Strategie di comunicazione integrata, gratuito per meritevoli. Info qui.
Quello che ho capito finora del marketing data-driven: un riassunto del panel con UniCredit, Stellantis, ING e Bancomat, all’evento SAS della settimana scorsa. Lo leggi qui.
Negozianti
Un po’ come quando compro i meloni dall’agricoltore, che mi chiede “Li mangi subito o no?” “Un po’ e un po’”. Ma fatto col packaging.
That’s all folks!
Anche per questa settimana è tutto. Buon fine settimana,
gluca
b) 90.000 euro (fonte)