[È venerdì] Che farci, con questi podcast
È il tempo di buttare soldi di budget nell'oggetto misterioso?
[È settembre], più che altro. Per chi emerge solo ora in posta elettronica qui, e ha già nostalgia dell’estate, ci sono i miei pezzi estivi, ancora caldi caldi: il modello di business del borgo appenninico, l’over-tourism al Lago Più Piccolo d’Emilia, la segnaletica del grande-ospedale-emiliano (tutto ok, non preoccupatevi). Oggi invece il venerdì più famoso del marketing (così, per bullarmi un po’) riprende pian piano le normali trasmissioni con un pezzo sul dubbio annoso del “metto o no i podcast – qualunque cosa significhi – nel budget di marketing?”. E c’è lo sponsor, per esempio: Impact 25, un webevento figo su quel casino che è diventato Google Ads.
Budget che si disperdono, feed non ottimizzati, PMax che limita il controllo: ostacoli che rallentano la crescita.
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📅 24 settembre 2025 – Online e gratuito
Che farci, con questi podcast
Chi deve fare il budget oggi si trova a toccare con mano l’epoca della frammentazione. Ne avevo scritto qui, e rileggendo mi sa che è ancora più valido oggi. Citavo Air, un film di qualche anno fa:
Il nostro eroe ha dunque 250.000 dollari a disposizione e deve suddividerli su tre giocatori scarsi, per limitare il rischio e sperare che qualcuno dei tre superi le aspettative. Il che ovviamente non accade mai. Ma Sonny (il responsabile delle sponsorship), trascinandosi dietro il riluttante marketer Strasser decide che – al diavolo – tanto vale fare all-in, giocarsi tutto con un nome: quel nome è ovviamente Michael Jordan e il seguito è più o meno noto.
In realtà succede sempre (o quasi) il contrario: i budget di marketing tendono a frazionarsi sempre di più. Perché il numero di piattaforme aumenta, il numero di profili interessanti per le collab aumenta, perché i numeri vanity sono sempre più alti (l’inflazione delle views da zero virgola zero zero millesimi di secondo è iniziata da quei geni di TikTok, e un giorno capiremo che nemmeno in dieci anni di tempo avremmo potuto fare le visualizzazioni di un anno, a popolazione umana costante, se fossero effettive – e non parlo di frodi, ma solo di visualizzazioni percepibili da un occhio umano, che ha bisogno di almeno 50 centesimi di secondo per capire cosa sta guardando. Qualcuno ha già fatto gli stessi conti in tasca alla display advertising, e – ops – non tornano).
Il fantasma dell’opera del budget di marketing da qualche anno è il podcast, che ha seguito il tipico ciclo dell’hype di ogni nuovo modello di contenuto:
"Diventiamo media company: il contenuto lo facciamo noi!”. Segue disillusione su quanto poco siamo interessanti quanto a brand, e quanto poco abbiamo da dire, o comunque che – strano – alla gente non interessa la nostra storia.
“Prendiamo un influencer che ci porti pubblico, ma poi i contenuti li facciamo assieme”: veniamo seguiti dal pubblico dell’influencer a cui interessa il giusto del nostro brand, e di solito si guarda o ascolta solo i primi dieci minuti della prima puntata.
“Okok - come scrive la gen Z, e il dir mktg si adegua – allora diamo 50k a grande-agenzia-che-fa-podcast-famosi, e ce ne facciamo fare uno in partnership, almeno poi ci fanno un bel comunicato stampa che va sulla stampa di settore con tanto di intervista a me”. Non sapremo mai i numeri veri, ma è meglio così per tutti.
Arriva il taglio del budget focalizzato su ciò che porta “le cose a terra” capitanato dal CFO e dal CEO: ok, compriamo pubblicità a CPM con il programmatic, su Spotify e su YouTube, interrompendo la narrazione e facendoci maledire dagli ascoltatori, ma a costi bassissimi. Non avrà fatto branding e nemmeno clic, ma il CFO è contento dei 4 millesimi di euro a costo di ascolto teorico.
E ora che abbiamo provato tutto, che si fa?
Quando si tratta di mondi più o meno trasparenti come su Google e Meta, il trucco è di buon senso: capire bene i numeri che ci vengono offerti e come sono calcolati.
E capire il costo per attenzione, più che per “visualizzazione”. Ne scrivo da nove anni, e il mio ruolo è di chi predica nel deserto: e ovviamente ne sono consapevole – lo so, il perché, perché non conviene a nessuno andare a rivoltare la boule de neige del caso.
Tutto cominciò dalla impression. Nel 2010, su Wired, scrivevo – a proposito di banner – che solo l’interazione voluta e cercata produce una vera “impressione” mentale, composta da reali neuroni che si attivano, molto più potente degli anonimi numeri di contatti passivi di un adserver, per quanto elevati in valore assoluto.
La parola impression è puro wishful thinking, speriamo di fare una (strong) impression quando compriamo impression, ma nel 99,9% dei casi questo non avviene.
Però, nella furia di misurare tutto, probabilmente stiamo sommando le mele con le pere. Impression sui social, video, testuali, banner probabilmente nemmeno visti. Azioni come like sommate a commenti e share.
Due punti sono importanti, a mio avviso.
Il costo a contatto general generico non ha più senso, perché il contatto non è univoco. Una volta i tipi di contatto erano pochi (ho visto/sentito lo spot, il giornale). Praticamente non misurabili, ma abbastanza confrontabili. Ora tutto è diverso, e in pratica misurabile, ma non confrontabile.
Quello che non possiamo misurare davvero è infatti quanto ogni contatto sia entrato nella pupilla, abbia interessato un numero sufficiente di neuroni, abbia di fatto spostato la preferenza di acquisto di un millimetro nel customer journey, e quanto sia stato eventualmente memorizzato. Non è poco nel mondo vendutoci come misurabilità totale che doveva essere il digital marketing. Perfino il primo passaggio, quanti neuroni un contenuto (pubblicitario o meno) di un brand abbia acceso, è difficilmente riconducibile a un’azione misurabile.
E per i podcast, in cui la minaccia di Spotify di mettere i numeri sugli ascolti in chiaro ha sollevato le folle dei creator? (Quando un creator non vuole che si pubblichino vanity metrics non è un buon segno).
Abbiamo capito che “every company is a media company” solo se è davvero una media company. Molte aziende devono solo spiegare cosa fanno in maniera decente, e sarebbe già un passo avanti.
Capite se lo fate per il vostro personal branding o se vi interessa anche il brand dell’azienda. La scelta potrebbe differire di parecchio.
Calcolate l’attenzione (e il costo opportunità) sul tempo che il brand avrà nelle collaborazioni, non sul tempo attenzione che il creator attrae su di sé.
Se una cosa costa poco, c’è un motivo. Può essere una bazza (emilianismo per “occasione irripetibile, spesso illusoria”) ma a quel punto dovreste misurare in modo indipendente.
Una buona collaborazione ripetuta con un podcast ascoltato da molti individui in target è meglio di una spruzzata qua e là.
Se qualcuno in azienda si aspetta vendite a breve da queste cose, scappate subito.
Detto questo, mentre sto scrivendo, alla radio locale passa la pubblicità di una pompa di benzina. La cosa più insensata (e romantica) da ascoltare, per un marketer. Il bello del nostro lavoro: non c’è mai una risposta esatta in assoluto, per questo non ci hanno sostituito totalmente con la AI, ancora. E dare la colpa alla AI, diciamolo, non dà la stessa soddisfazione del dare la colpa al CFO che vuole mettere a terra.
[Taglio], una volta ogni 10/15 giorni circa
Nella mia testa vorrei fare un 30% di rassegna selezionata di marketing, 30% di commento fuori dal coro, e 30% di formazione continuativa, attraverso l’applicazione di articoli, casi e ricerche, per chi lavora nel marketing in azienda (principalmente). Il 10% per qb a 100.
È in voce (la mia: non è AI, purtroppo, troppo comodo sarebbe). Perché mi piace provare cose nuove. E poi perché penso che sia una cosa utile.
Ah, allora è un podcast? No. È una cosa riservata per ora a chi riceve la newsletter, poi probabilmente chiederò un contributo spese mensile/annuale, ecc. Ma prima voglio vedere se mi/vi piace e sono adatto a farlo, qual è il feedback, se raggiungiamo il break-even point con il tempo (non poco) necessario a produrlo, ecc. ecc.
L’idea è di tenerla sotto i 30 minuti, e farla uscire un paio di volte al mese, senza un giorno particolare, magari a fine giornata.
Ma perché si chiama “[Taglio]”? Boh, diciamo che è un mantra: nel dubbio, taglio.
Nel numero zero, ho commentato un articolo dell’Economist sul perché le aziende non adottano l’AI, a che e a chi servono davvero quei duelli social tra brand antagonisti, da HBR, un framework strategico, da BasicArts e il report Engage-Human Highway 2025 sui trend tra gli addetti ai lavori del digitale.
Avete scaricato il mio ebook Cose divertenti? È anche gratis.
Ma se volete proprio farmi contento e studiare i culti senza annoiarvi c’è il libro giallo. Qui potete leggerne un capitolo, pubblicato da Link.
Cose mie che potrebbero interessarvi
Ho fatto quattro chiacchere sul libro e sul marketing per il podcast video di
.In più, ho scritto un pezzo per Quants, una rivista fighissima di carta, ma che potete leggere anche online, anche se farebbe bella vista in ufficio. Parla dell’inarrestabile culto di Vinted.
Ci si becca venerdì.
Ciao,
gluca
E grazie come sempre a Daniela Bollini per l’editing, a Cristina Portolano per i separatori e per la mappa del libro giallo. E a Channable per la sponsorizzazione.