Questo post è stato ispirato dalla contemporanea lettura di un libro che consiglio a tutti (il maschile è voluto: da molti esempi sono uscito psicologicamente malconcio nonostante pensassi di essere gender-bias free, cosa non vera ovviamente), Brandsplaining: Why Marketing is (Still) Sexist and How to Fix It, e di molti terribili post del calendario editoriale social dell’8 marzo. Ho unito i puntini.
Nel mondo del marketing, e forse ancora più in quello della pubblicità, c’è un eterno duello: quello tra realtà e finzione, in cui spesso la creatività è stata associata solo con la seconda. Dove la prima è di solito identificata e relegata come lo “stato iniziale” (meglio se insoddisfacente) del target e la seconda come “aspirazione”, il magnete che spinge all’acquisto.
“Ma è così finto! Ma le nostre clienti (ndr bias del target) non hanno delle cucine così grandi! E poi le cucine sono disordinate, sono vissute, perché queste immagini così laccate?”
“È perché devono essere aspirazionali! Nessuno vuole vedere cucine con macchie di sugo e tegami sporchi nel lavello” “Ok, non ho detto questo, ma…”
Di solito il dialogo si interrompe lì: nessuno chiede al target un check. L’agenzia non mette in discussione ex post la propria creatività, costa e poi magari bisogna rifare tutto, ed è fuori contratto. Il marketer (uomo solitamente, comunque nella posizione più alta in grado) pensa che loro sono l’agenzia, al peggio dà la colpa a loro, e quindi amen, approvato.
Il produttore di pentole preferisce che i suoi arnesi siano mostrati dentro a una simil camera iperbarica piuttosto che nel loro imperfetto uso quotidiano (molto spesso nemmeno il cibo c’è dentro, anche se questo è a volte per mere ragioni di costo). Pensiamo di default che la perfezione di fantasia, mostrata, faccia vendere di più. Forse confondendo il racconto cinematografico con il racconto di marca: certo che ci piacciono le cose finte (Star Wars) ma non ci piacciono se vogliono venderci qualcosa passivaggressivamente (“come, non hai anche tu una navicella spaziale?”), o ci lasciano perplessi. (I mix di finzione e realtà, poi, sono nitroglicerina: basta pensare al caso Parmigiano e la fiction-spot-doc-boh che ha suscitato il famoso polverone. “Dobbiamo prendere alla lettera qualcosa, ma non tutto, capito?” sembra spiegarci il brand, solo che se devi spiegare hai già un problema.)
In fondo, ho scritto una volta, il marketing ai suoi minimi termini è (stato?), per quanto cinico sia farlo notare, scavare nelle debolezze umane, e piantarci dentro un coltello di senso di inadeguatezza a forma di advertising. Far capire, accusandolo passivo-aggressivamente, al target che non è a posto, se non ha quel prodotto, quell’aspetto, quel barbecue.
E il fashion e il beauty, a target prevalentemente femminile, sono in prima linea da sempre, almeno da quando è passata in secondo piano/a cringe la classica pubblicità dei detersivi e robe di pulizia varie (“i piatti che vuol lavare lui”, ecc.), invariabilmente basata sul fatto che la casa pulita fosse colpa/responsabilità della donna.
Le (cattive) agenzie e i marketer pigri odiano la realtà, perché è più complicata del mondo perfetto delle foto di stock. Ricordo una fintissima campagna del turismo croato, che vedendola chiunque mai stato sulle coste adriatiche di-là avrebbe alzato il sopracciglio.
Ma la realtà, le persone vere, i social veri, sembrano svilire la creatività, nella mente del creativo. Perché devo essere pagato milioni, se basta andare su Twitter?
La forza della costa-di-là è che milioni di turisti hanno raccontato la verità, e questa verità dopo è piaciuta, molto semplicemente. Questa dell’aspirazionalità è un totem autoimposto dall’industria. Non c’è prova che funzioni meglio della realtà.
Tuttavia l’aspirazionalità è socialmente pericolosa, perché finisce per sedimentarsi – e qui arrivo al puntino sulla condizione femminile. Ha prodotto nel corso degli anni dai-e-dai un senso di inadeguatezza e consolidato stereotipi duri a morire.
(Anche se – posizione impopolare, lo ammetto – non vorrei dare sempre tutta la colpa al marketing – non ha tutta questa potenza: a volte i consumatori e le consumatrici sono complici, e il marketing semplicemente si adegua, “ha obbedito agli ordini”. Certo marketing che ora aborriamo era solo sign-of-the-times: le persone pensavano quello anche prima che il marketing glielo dicesse per vendergli cose. Nessuno ci ha obbligato a comprare il fast fashion, per esempio.)
E allora – in linea con il cambiamento nelle menti – adesso si usa il marketing dell’empowerment: i brand ci dicono (ma sempre in particolare alle donne) DAI DAI DAI. “Vedi come siamo aperti? Ci battiamo per voi a colpi di post su Instagram, e ti aiutiamo con un coupon per la giornata della donna”.
E qui arriviamo al vero dilemma finale: il marketing è dire o fare? Ahimè, dipende: tuttavia molti brand, soprattutto D2C, benedetta sia internet, stanno lavorando per fare. E senza basarsi (coraggiosi!) sul far sentire inadeguato il target. Non tanto quelle cose di CSR post utile di esercizio, ma proprio progettazione inclusiva del prodotto, del journey, di tutto.
Se parti da lì, è difficile sbagliare un post o una pubblicità. Perché la realtà è complicata solo per chi non la abita tutti i giorni.
Nel libro si cita la disfida finale tra Victoria Secret e un altro brand, ThirdLove. Inserisco la risposta perché spiega meglio di me cosa si aspettano le persone, le donne, ma anche buona parte degli uomini, dai brand del futuro.
“Cara Victoria's Secret, sono rimasta sconvolta quando ho visto i commenti umilianti sulle donne che il tuo Chief Marketing Officer, Ed Razek, ha fatto a Vogue la scorsa settimana. Per quanto sia difficile da credere, ha detto quanto segue:
"Abbiamo tentato di fare uno speciale televisivo per le taglie forti [nel 2000]. Nessuna aveva alcun interesse, ancora no.'
'Ma come, perché il tuo programma non lo fa? Non dovresti avere transessuali nello show? No. No, non credo che dovremmo. Beh perché no? Perché lo spettacolo è fantasia.'
Ho letto e riletto l'intervista almeno venti volte, e ogni volta che la leggo sono ancora più arrabbiata. In che modo nel 2018 il CMO di qualsiasi azienda, per non parlare di una che afferma di essere per le donne, può fare affermazioni così scioccanti e dispregiative? Commercializzi agli uomini e vendi una fantasia maschile alle donne. Ma a ThirdLove, pensiamo oltre, come hai detto, a uno "speciale di intrattenimento di 42 minuti".
Il tuo spettacolo può essere una "fantasia", ma viviamo nella realtà. La nostra realtà è che le donne indossano reggiseni nella vita reale mentre vanno al lavoro, allattano i figli, praticano sport, si prendono cura dei genitori malati e servono il loro paese.
Non siamo andati oltre le idee obsolete di femminilità e ruoli di genere? È ora di smettere di dire alle donne cosa le rende sexy: decidiamo noi. Abbiamo finito di fingere che determinate dimensioni non esistano o non siano abbastanza importanti per essere pubblicate. E per favore, smettila di insistere sul fatto che l'inclusività è una tendenza. Ho fondato ThirdLove cinque anni fa perché era giunto il momento di creare un'opzione migliore. ThirdLove è l'antitesi di Victoria's Secret. Crediamo che il futuro stia costruendo un marchio per ogni donna, indipendentemente dalla sua forma, taglia, età, etnia, identità di genere o orientamento sessuale. Questo non dovrebbe essere visto come rivoluzionario, dovrebbe essere la norma. Ascoltiamo le donne. Rispettiamo la loro intelligenza. Superiamo le loro aspettative. Lascia che le donne si definiscano. Come hai detto, Ed, 'Non siamo il ThirdLove di nessuno, siamo il loro primo amore'. Siamo lusingati per la menzione, ma lasciami essere chiara: potremmo non essere stati il primo amore di una donna, ma saremo l'ultimo. A tutte le donne ovunque, vi vediamo e vi ascoltiamo. La tua realtà è sufficiente. A ciascuno il suo. Heidi”
— Brandsplaining: Perché il marketing è (ancora) sessista e come risolverlo di Jane Cunningham, Philippa Roberts
Il quiz della settimana
Quale è il motivo per cui le donne decidono di non indossare il reggiseno negli spazi pubblici in Francia?
a) Il disagio di indossare un reggiseno (dolore, irritazione, calore...)
b) L'impatto negativo che i reggiseni possono avere sul mio seno
c) La mancanza di sostegno dei reggiseni
d) Il desiderio di liberarti dalle norme estetiche imposte al corpo e al seno femminile
Link & Co.
ad aprile ritorna Umania, AI for Marketing, l’evento IULM dedicato alle applicazioni dell’Intelligenza Artificiale, sia live che in streaming: qui l’agenda. Ho alcuni coupon low cost: basta inserire DIEGOLI59 nel carrello. Ci vediamo là.
Con Giorgio Soffiato abbiamo pensato a un esperimento, chiamato Marketing Xchange. Un’ora a tu per tu con un* marketing manager (vuoi essere tu?) per fare assieme un brainstorming aka serious game sulla strategia e trasformazione digitale dell’azienda. È gratis, ma faremo necessariamente una dolorosa selezione, ci si candida qui.
da ogni brand deve essere media company a: ogni media company o retailer può essere un ads network: qui Disney
Negozianti pop
A proposito della scorsa settimana.
That’s all folks!
Anche questa settimana è arrivata alla fine e pure questa newsletter.
Se ti è piaciuta, girala alla tua vicina di casa. Se hai disponibilità, aiuta Intersos al confine ucraino, è più utile che raccogliere cose da inviare (costa più il trasporto che il regalo).
& take care, gluca
Il quiz: a) 53% (dati IFOP)
(Non ricordi cosa faccio a parte questa newsletter gratis? Continua a leggere sotto)
La foto di anteprima è di Jabari Timothy da Unsplash