[È venerdì #221] Il termometro del brand
E se il brand non fosse una verità assoluta ma una variabile?
Ho cominciato a pensare a questa newsletter mentre ascoltavo una straziante versione slava di Creep dei Radiohead in una capitale a est. L’uomo suonava la pianola davanti a un compro-oro. A lato, un cambiavalute con i led rossi. Di fronte, un McDonald’s. Tra quelli che ascoltavano più da lontano, due con la cravatta nera, testimoni di Geova con un banchetto improvvisato.
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Il quiz della settimana
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Andremo dritti al punto: abbiamo lanciato un nuovo podcast, si chiama EvenTalks, parla di eventi, ed è online da martedì. E sai una cosa? Il nostro primo ospite potresti averlo già riconosciuto.
Hai presente quando Red Bull ha deciso di lanciarsi nello spazio? Partendo da questa storia Gianluca Diegoli e il nostro host, Stefano Brigli Bongi, si confronteranno sugli obiettivi di un evento e come inserirlo in modo efficace in una strategia di marketing. In poche parole, pane per i tuoi denti:
EvenTalks ti aspetta ogni martedì mattina con una nuova puntata per portarti nel lato nascosto (e decisamente affascinante) degli eventi. Otto episodi di 20 minuti con i quali scoprirai:
Come evitare un disastro alla Fyre Festival con Irene Bosi
Come un evento abbia cambiato il destino di AirBnB con Gilles Morange
Come il fallimento diventa un evento a Milano con Montserrat Fernandez Blanco
...e altre storie che ti sveleranno il dietro le quinte di questa incredibile industry.
Ti aspettiamo su Spotify, Youtube, Apple Music o sulla piattaforma che preferisci. E se poi ti va di proseguire la conversazione, vieni a fare un giro su LinkedIn @kampaay
Buon ascolto!
Il termometro universale del brand
Conversavo qualche giorno fa con un amico, il quale mi raccontava di come molti brand, alle prese con l’incertezza dei tempi e la non misurabilità di certe azioni, si affidano ormai al “brand assessment” periodico come unico (o principale) parametro valutativo delle azioni del marketing e della comunicazione. In quei giorni che precedono l’arrivo del report della società esterna specializzata in questo si trattiene il respiro, e si pensa in anticipo a come evidenziare i punti forti emersi o (più spesso) a come nascondere in una slide di un deck dimenticato i punti dolenti. Questi report sono diventati come dei termometri: febbre o non febbre. Malato oppure ok. Basati su indagini su poche migliaia di persone che dedicano pochi secondi mentre stanno navigando online, di solito.
Caso vuole che lo stesso giorno mi sia imbattuto in un’ennesima ricerca, in cui i brand salgono o scendono come se fossero canzoni da hit parade (esiste ancora questa parola? Forse no). Mattel sale, effetto Barbie (durerà?). Ma anche una a me sconosciuta vodka di nome Tito’s scala la classifica (la ricerca è USA). ChatGPT entra in classifica, ça va sans dire, e crolla X/Twitter. Entra al numero 100 la tanto celebrata Patagonia. Scende Spotify, ma non pare che il conto economico ne soffra. Insomma avete capito il genere. Qui c’è la lista, in caso1, chiamata “2023 Brand Keys Customer Loyalty Engagement Index”.
Quell’asset chiamato brand ha avuto momenti di estrema gloria e momenti in cui è stato un po’ più messo in discussione, nella storia minore del marketing. Dai picchi di Lovemarks, fino all’era di Amazon e del picco del prodotto sostitutivo, dei “marchi” chiamati con lettere a caso (non è una battuta, ho uno scaldino per il bagno la cui marca è – vado a memoria – XBTXZ. Preciso che non sono pazzo, era semplicemente il più venduto), in cui il brand non esiste proprio, sostituito dal qui e ora delle feature comparative, delle recensioni e del prezzo. Addirittura Scott Galloway2 sosteneva che la tecnologia della voice search avrebbe ucciso i brand. Ma direi che l’hanno scampata, per il momento, soprattutto perché la voice search è stato un semi-flop. Ma il concetto di fondo è comunque valido: se il brand è in fin dei conti un’assicurazione sugli acquisti, non è in competizione con fenomeni in trending topic come le recensioni e con la facile comparazione nei marketplace? Su questo vi rimando a un mio articolo3 su Link, sui cosiddetti microbrand.
Su internet troviamo definizioni di questo tipo, riprese da Lovemarks:
Lovemark è un concetto coniato da Kevin Roberts, CEO dell’agenzia pubblicitaria Saatchi & Saatchi, per descrivere un marchio che ha raggiunto un livello di fedeltà e di connessione emotiva con i propri consumatori così profondo da trascendere la semplice fedeltà al marchio. Un lovemark è un marchio che i consumatori amano incondizionatamente e per il quale sono disposti a pagare di più, anche quando sono disponibili opzioni più economiche. Un lovemark si distingue da un marchio ordinario per la sua capacità di generare emozioni profonde e positive nei consumatori, come l’amore, l’eccitazione, la fedeltà e la fiducia. I lovemark hanno un’identità distintiva che risuona con i consumatori e diventa una parte importante del loro stile di vita e della loro identità personale.
Probabilmente, al di là di quanto ne pensi ogni responsabile marketing e il suo art director preferito, di lovemark ce ne saranno sì e no una decina, al mondo. Forse. Che occupano però il 99% dei case study. E il resto delle aziende come sopravvive? Sopravvive – in realtà buona parte prospera pure – perché il brand è solo una parte del mix dell’acquisto. Si possono vendere il 50% delle robe su Amazon senza nessun brand, e il 90% su Shein. Ovunque ci si gira, ci sono aziende de facto no brand. Il baretto della stazione degli autobus (ha l’insegna ma è diverso) che vive della gente di passaggio, un benzinaio in una strada di traffico, un lavasecco che è l'unico nel quartiere. I supermercati Tosano. Il 90% degli hotel su Booking. Un grande grossista di attrezzatura per ferramenta da 100 milioni di fatturato, perché ha un punto di forza nel prezzo, nella distribuzione e nella logistica. Di solito si chiama con il nome del fondatore e ha un logo in Times New Roman.
Ogni problema, nel marketing, nasce dalla sopravvalutazione del proprio martello da parte dei venditori di martelli e dei loro committenti. Il brand-martello, gli executive e le società di consulenza/monitoraggio che ci ronzano attorno non fanno eccezione. A peggiorare il problema è che spesso la sopravvalutazione del brand deriva dalla sopravvalutazione del fattore loyalty, e ancora del fattore brand sulla loyalty, che spesso non è altro che inerzia comportamentale. No, il termometro del brand non spiega tutto. Non spiega, da solo, la fedeltà. Non spiega le quote di mercato, il margine.
Il brand diventa decisivo quando ci si deve posizionare per prezzo premium, ovviamente. E quando le transazioni sono – paradossalmente – poco frequenti e di valore. Uno smartphone, un’automobile. O quando in più le feature sono opache e il valore è simbolico: fashion, ovviamente. Ma al di là dei grandi nomi, in qualunque settore, ci sono aziende che sono (a volte inconsapevolmente) no brand, ma che svolgono un ruolo di successo in quell’ecosistema. Farle spendere per il “brand” nel marketing mix potrebbe essere nient’altro che un vezzo inutile e costoso, che sottrae risorse e tempo al loro vero (altro) punto di forza.
Il marketing insegnato dai negozianti
Uhm.
Forse non lo sai, ma l’originale ilmarketinginsegnatodainegozianti.info è mio.
Segnalazioni spurie
È uscito un mio pezzo su Link, un long form sul business del meteo e delle app relative.
Il marketing insegnato dai dentifrici: 9 dentisti su 10 raccomandano questo articolo - Il Post.
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ciao, gluca
Grazie a Daniela Bollini per avere corretto la bozza (eventuali typo sono miei, aggiunti dopo) e a Cristina Portolano per i (nuovi!) separatori d’artista.
Quiz: b - 4,7 triliardi (fonte)