Oggi non è venerdì, e questa non è la solita newsletter. La scrivo al ritorno dalla Calabria come un reportage di viaggio – anche se io odio il 90% dei reportage di viaggio, e quel 10% sa a chi mi riferisco – mentre già sono immerso in questa afa non ancora calda e già piena di zanzare. Ho acceso uno zampirone, la cosa più inutile mai inventata, un effetto placebo di successo, ma solo come incenso alla padanità – qualcuno tra migliaia di anni lo troverà e penserà a chissà quale rito, ne sono sicuro, con quella forma sciamanica da ing e yang, e invece no. In realtà sto scrivendo perché piuttosto che finire Tasmania di Paolo Giordano sono andato anche alla Coop a fare la spesa, e poi, finite le scuse, ecco queste righe.
Quando mi era stato proposto di far finire questo maggio pieno di cose (che poi si è riempito anche di sventure dai cugini romagnoli) in Calabria, ho pensato oh no, l’Italia. Prima di essere tacciato di anti-nazionalismo, cosa che per altro in me potrebbe avere senso e anche un po’ di orgoglio, spiego che per me la vacanza è solo estraniamento. Uso non a caso il termine più letterario tra i quasi sinonimi. Dal flusso di notizie, dal qui e ora, da quelle cose quotidiane che sembrano importanti ma non lo sono: quando arrivo nei Balcani (ok, vedo i vostri occhi ruotare verso il cielo, ma sopportate un attimo) mi sento estraneo, resettato. Non capisco cosa si stanno dicendo, devo reimparare a vivere in un certo senso. Cosa ci sarà scritto nel menu? Ora lo so, in realtà, ma per fortuna i Balcani sono come una cipolla: quando togli una buccia ce n’è sempre un altra. Come disse la mia guida a Sarajevo: se pensi di avere capito, non hai capito nulla.
Dunque, questa Calabria, Italia. C’è la fatica di mettere via la tua spocchia nordista, da triangolo della morte (industriale), dove gli asfalti sono (devono essere!) lisci come biliardi e i gruppi di vicinato si lamentano se il cartello di località si è inclinato e si occupano di gatti e oche (è vero) smarriti. Che poi è la stessa dei turisti italiani all’estero – perché loro vengono dal paese auto-nominatosi il più bello del mondo e dove indiscutibilmente si mangia meglio che in tutto il globo terraqueo (cit.).
C’è la fatica di non lamentarsi se le strade, fuori dalle autostrade (ehi, tutto gratis!) non hanno la riga di mezzeria, figurati quella laterale, se le frecce delle località sono approssimative. Di non stupirti se arrivando all’aeroporto internazionale di Lamezia Terme – dove quell’internazionale evidentemente si riferisce ai voli, non agli standard – vedi delle indicazioni per «Aula Bunker», in azzurro, come se fosse un paese.
Incontrare persone che conosci, o amici di persone che conosci – perché buona parte delle persone che conosci, scopri quando annunci il tuo viaggio in Calabria, sono di origini calabresi, ti fornisce tanti dubbi sull’eroismo. Sono io stato eroico a rimanere nell’Emilia-Illinois, sono stati eroici quelli che ora stanno a Milano ad andarsene, sono stati eroici quei due ragazzi – lei psichiatra, lui insegnante – a tornare nelle rudi montagne di Catanzaro, dal centro di Modena (e dalla sanità-e-scuola-che-funziona-blah-blah)? Non lo so.
Alla fine il mio tanto atteso estraniamento è arrivato, ma non esattamente come me lo aspettavo. C’è qualcosa in Calabria di finis-terrae, di sicuro. La mancanza di centri commerciali – ne ho visto uno nel «punto più stretto d’Italia», ma sembra una fortezza micenea. Quasi autosufficiente, staccata dal resto, in attesa di un successo che non arriverà mai, perché nel frattempo perfino i mega-mall a nord est si stanno inceppando. Gli altri supermercati sono in realtà franchising, perché né Coop né Conad, figurarsi quei perfettini di Esselunga, vogliono impiantare colonie qui. Al massimo si fanno dei feudatari, che poi affiancano alla bell’e meglio il loro cognome ai laccati loghi creati dai famosi designer al servizio della GDO dei tempi d’oro. Lo so, con tutta l’arte che c’è in Calabria, perché ci parli di supermercati? Perché – l’ho dichiarato – odio i reportage di viaggi.
C’è lo straniamento di Tropea: una città stato, in cui come in una Mirabilandia per stranieri si è inscenata l’Italia perfetta: non è un caso che chi mi segue su Instagram abbia visto i miei selfie con la Venere Ministeriale. C’è un indice, in Calabria, che potremmo chiamare struncatura-index: il piatto costa 5 euro vicino alla famigerata piana, a Nicotera, ai 25 euro a Tropea. (Io sono sempre d’accordo quando qualcuno vuole essere una Ferrari, ma poi, ehi, la gente si aspetta la perfezione, lo sportello deve fare «puf», non «clac».)
Poi esci e vedi, a 10 chilometri, la normalità, che agli stranieri Trumanisti non viene fatta vedere. I bar automatici: mai visti così tanti, chissà perché. Le madonne che campeggiano su edifici involontariamente brutalisti, i padri pii che sorvegliano autolavaggi. Le spiagge che sarebbero piaciute a Vasco Brondi per farci affondare le sue petroliere.
Devi osservare bene tra le pieghe per notare oltre la normalità: a Tropea c’è anche un ristorante talmente talebano che ti chiede la prenotazione cinque giorni prima perché loro comprano solo quello che serve, niente di più. A 200 metri turisti australiani si riempiono di un calabresissimo spritz Aperol. A Soverato dei ragazzi hanno fatto il pokè calabro. Caffo e il suo amaro del capo onnipresente svetta ovunque, ma se chiedi bene ci sono amari che non conosce nessuno (quelli veri, mi dicono gli amici locali).
C’è quella provincia ferma agli anni ottanta cantata da Brunori – l’insegna con il logo Mediolanum di 20 anni prima, le ricariche telefoniche della… Omnitel – e c’è il campo eolico, che gli invidio fosse solo perché c’è vento, evidentemente. Ci sono i mercatoni cinesi come ad Alicante, vicini alle rotatorie. Ci sono loghi che fanno sanguinare gli occhi ai grafici, ma che alla fine, che gli vuoi dire, se l’insegna si chiama “Pago Poco”, forse ha senso. Ci sono tanti ragazzi, in minigonne e magliette di ordinanza, che vedono gli stessi reels di piazza Navona e NOLO, e penso che forse, per loro, questa tanto odiata globalizzazione non è poi così male. C’è la cessione del quinto di Agos agli incroci e c’è l’onnipresente «Acqua per la famiglia» nei cartelloni stradali, con tanto di immagine di famiglia felice, probabilmente perché «è un’acqua tra quelle con meno residui al mondo». Ci sono hotel abbandonati «che coprono i tramonti» e ragazzi intraprendenti che si inventano Airbnb da edifici prima fatiscenti, a cui poi fai fatica a raccontargli la storia della malvagità delle multinazionali del turismo. Ci sono le proloco sciolte per infiltrazione mafiosa e la gente attaccata ai (alla rivitalizzazione dei) loro borghi come se fossero ancore contro la dissoluzione di un passato che potrebbe portarsi dietro poi anche il futuro. (Non sono riuscito a fare la battuta che faccio sempre: «Basta piccoli borghi del c***o, basta!»). Che ne so io di quanto sia difficile portare la fibra ottica a Santa Caterina dello Ionio?
Non starò a dire come un giornalista qualsiasi che questa potrebbe diventare la California d’Italia, perché non è vero. Perché il south-working è arbitraggio di costi, non crescita collettiva. Perché io, come i giornalisti, poi ce ne andiamo. E, probabilmente, non abbiamo capito niente.