[È venerdì] Tabelloni e zucche
Perché guardiamo le partenze sul tabellone, perché facciamo i post di Halloween
Mentre sei ancora lì che pensi se l’addetta della catena in franchising della Stazione Centrale abbia reso o no un buon servizio alla propria azienda proponendoti di creare un menu con la spremuta e il caffè che avevi chiesto separatamente ignorando l’esistenza del suddetto menu, e quindi facendoti pagare meno di quanto saresti stato disposto a fare, quindi causando dunque un danno economico ma un evidente vantaggio in termini reputazionali, ecco, sei lì che osservi con un certo stupore la calca che si forma attorno a questi vecchi arnesi ottocenteschi che rispondono al nome di tabelloni elettronici delle partenze – dove di realmente elettronico c’è poco, dovremmo chiamarli elettrici, ormai – ignorando bellamente la tecnologia che hanno in tasca, utilizzata invece per chattare con qualche parente o – oddioddio – addirittura per fotografare il suddetto tabellone elettrico e spedirlo via whatsapp ai cari congiunti in attesa di notizie, cerchiando con il dito-pennarello colorato di quell’orrendo verde whatsapp il proprio numero di treno disegnato dal display arancione su nero.
Ti chiedi perché ci sono strumenti fisici che la gente non vuole assolutamente usare (i totem interattivi, che ammiccano solitari, già sconfitti prima e poi irrisi dalla pandemia e dalle conseguenti norme anti-toccaggio di qualsiasi cosa) e altri a cui le persone sono affezionate fino a sfidare il contagio e l’affollamento per vedere un binario e un orario che avrebbero potuto comodamente vedere sul proprio smartphone. Oddio, forse comodamente proprio no, ma nemmeno con uno sforzo sovrumano: “apri la app, tabellone, guarda”. Certo, c’è il fattore gregge, quel fattore che ti unisce attraverso la suspence e la probabile sofferenza condivisa, in cui il ritardo si trasforma in un social object a basso rischio per fare due chiacchiere con chi ti sta vicino. O per seguire la folla se non capisci cosa succede. Come guardare una partita in compagnia, credo; la partita è la stessa ma la situazione no. O forse è la sicurezza che ancora oggi ci dà la fisicità, o potrebbe essere il broadcast, quella informazione che tutti vedono, e che quindi deve essere vera, mentre quella sulla mia app chissà, magari no, magari stanno ingannando solo me. Un effetto già visto sulla pubblicità broadcast, dalla TV ai megaschermi bladerunner di piazza Duomo: la sua potenza non sta in quello che vedi o quello che ti dice o quanto ti convince, ma nel fatto che tutti la vedono, e così facendo il brand esprime la sua fiera unicità e potenza bellica.
Mentre finisci il tuo menu-non-menu, osservi che nel sacchetto c’è anche un volantino: il menu era un menu halloween, C’era un dolcetto nel fondo del sacchetto. Da lì finisci per pubblicare una cosa su Instagram, il radar Halloween dei brand, e passi tutto il ponte a ricevere segnalazioni dei peggiori post social e a ripubblicarli –almeno fino a quando la tristezza per quei copy e quegli art obbligati dal committente a pubblicare una ovvia ovvietà, che gira attorno alla paura (sconti da paura, promo da paura, novità da paura), dolcetti o scherzetti, quando vendi dolcetti. Ma anche grafiche terrificanti in ogni senso: da detersivi circondati da pipistrelli, zucche dozzinali da stock, aviolinee fantasma, ketchup draculeggianti, brividi al supermercato (si scoprirà che uno è quando una anziana parla prima di te alla cassa), i regionali che terrorizzano anche ad halloween come non bastassero il resto dei giorni dell’anno, seriosi giornali che si offrono a un’euro al mese per halloween (lo sappiamo che la promo era quella di prima e ci avete attaccato solo la zucca), prosciutticotti travestiti da ragni, per attrarre i bambini che vogliono prosciuttocotto a merenda ma cui piacciono i ragni (un insieme vuoto).
Tutte queste zucche, tutte queste ore di lavoro affannose a colpi di “più originale”, “più safe”, “meno spinto”, “non fa ridere”, “e la promo?” saranno andate perdute negli archivi delle stories in poche ore. Come i tuoi studenti testimonieranno poi in un improvvisato focus group nessun post social di brand verrà ricordato. In fondo è un sollievo per tutti, marketing manager, copy, creativi. Tutto questo affannarsi ti ricorda un po’ quando alle medie non volevi non essere invitato a una festa a cui non volevi andare. E quando andavi non è che spiccassi per notorietà o attrazione. Halloween è l’adolescenza dei brand: la paura di essere dimenticati, la paura di non esserci, di essere diversi dagli altri, di non mettere il dolcetto nel menu. O forse come le persone di fronte al tabellone: un po’ meno sole. E poi via, tutti assieme con il sollievo della certezza di non essersi distinti dagli altri, che poi sarebbe l’unica cosa che dovrebbero fare i brand. A quello servono. Quelli adulti, s’intende. Però il dolcetto del menu non ti era sembrato male, tutto sommato.
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