Da questa settimana si entra gradualmente nella versione estiva-ridotta della Lettera, e tanto per cambiare, la newsletter si trasforma in un mini-racconto minimalista carveriano. Ovviamente è tutto inventato, e ogni rif è casuale.
I quiz si prendono un po’ di ferie, tornano la prossima settimana.
Di merendine e di niente
Da quando il real-time-social-media-marketing era entrato nella sua vita? Non dovevano essere più di sette anni? O forse erano meno, ma erano sembrati di più?
Chi aveva iniziato quel circolo vizioso per cui anche il suo brand riassumibile in merendine di media qualità, medio prezzo, per famiglie, vendute per lo più al supermercato e al discount, un prodotto che navigava tranquillo sugli scaffali senza grandi oscillazioni di market share da 20 anni, senza variazioni alla formula segreta “custodita fin dal 1880 dal fondatore Merendino Merendini”, salvo qualche adattamento ai tempi – versione senza glutine, solo con grano italiano con adattamento del packaging con bandierina tricolore, e le necessarie versioni light con ancora meno zucchero (e più aspartame), eccetera eccetera – doveva competere in questa affannosa ma dichiaratamente effimera corsa alla battuta migliore, una gara che si era destinati a perdere, prima contro le stesse persone (sono tante e brave con l’ironia, le persone, perfino Zelig non c’è più, bastava Twitter, ormai)
Una traiettoria battutistica peraltro flagellata dagli ostacoli interni: evitare qualsiasi tema complesso, divisivo e degno di potenziale rivolta o (dio me ne scampi, pensava) crisi social. Quindi la checklist era stata appesa nell’ufficio marketing: attenzione alle minoranze, attenzione ai doppi sensi, attenzione ai complottisti del grano canadese, attenzione agli ambientalisti, ai vegani, ai nostalgici della formula con zucchero. E poi c’erano gli zig zag di infinite riunioni e sospensioni dei lavori che nemmeno la legge Zan, i severi moniti e gli sguardi dubbiosi dei cravattati figuri dell’ufficio legale, le maniacali idee di grandezza dell’amministratore delegato che voleva essere ricordato come colui che aveva ribaltato il noioso brand in una media company per la Gen Z (lo ribadiva a ogni intervista) per ambire a un ruolo multinazionale, la pioggia di benchmark e disruptive ideas dell’agenzia creativa, impegnata a sua volta in un riassuntone globale di tutte le idee più cool del realtime marketing di sempre (ecco! il biscotto durante il Superbowl! forse era iniziato tutto lì? Ricordava le slide. Gli era venuta fame).
In realtà, in cuor suo, sperava in una eliminazione: magari non al primo turno, che in effetti un po’ di soldini per diventare sponsor tecnico li aveva messi (obtorto collo, ma gli erano tutti contro: le merendine, l’italianità, la voglia di ripartenza in cui bisognava mettere il nostro logo-sigillo), e qualcuno avrebbe dato la colpa a lui dell’investimento sbagliato, ma diciamo in semifinale. Situazione ideale: bravi tutti, post inutile di ringraziamento, foto di calciatore con la merendina in bocca preparata già nello shooting di sei mesi fa e via: “e ora ci possiamo dedicare di nuovo a raggiungere gli obiettivi di questi maledetti nuovi snack allo zenzero” che non ne vogliono sapere di essere mangiati, nemmeno con i nuovi espositori e nemmeno con lo sconto e nemmeno con il concorsone per vincere un viaggio nella nazione che avremmo battuto in finale (sognava già di mandare questi maledetti clienti scrocconi che partecipano a tutti i concorsi - salvo dimenticarsi subito dopo di comprare le sue merendine - in paesi esotici come l’Ucraina o la Polonia. O magari a Kaliningrad. Purtroppo era poco probabile). E poi adesso la grande distribuzione che stava per copiare la Merendina Originale, ovviamente a prezzo più basso, gettava un’ombra oscura sull’autunno (“ci pensiamo a settembre, capo!”)
Ovviamente era inutile parlare di queste cose noiose e intricate di numeri e grafici, prima della finale. Nessuno lo avrebbe ascoltato: “ehi, siamo in finale!” gli ripetevano nei corridoi e su Zoom, come se il loghino delle merendine nei materiali avesse contribuito in qualche modo alle vittorie. Sul carro del vincitore, dritti verso non si sapeva cosa.
E invece gli 11 avevano vinto. Le varie proposte di post e relativa sponsorizzazione di real time marketing erano stati preparati già dopo la semifinale. Qualcuno in agenzia aveva lavorato tutta la notte, le facce dell’account e del copy erano più sfatte di quelle dei calciatori dopo i supplementari. Quanto era ironico quell’aggettivo realtime? Sei ore di Zoom per decidere se usare una qualche variazione di Coming Home vs Rome. Il logo, sì no, il prodotto, più grande, più piccolo, video o reels o?. Mettiamo la merendina, non la mettiamo? QUALE VERSIONE DELLA MERENDINA? E se non c’è il prodotto, a cosa serve il post? Se c’è il prodotto, sembra che vogliamo solo farci pubblicità. Fa ridere? Non fa ridere?
Mai nella sua vita, dalla Bocconi in poi, avrebbe pensato di assistere a una riunione in cui si decide se una cosa fa ridere o no, e soprattutto che lui avrebbe avuto l’ultima parola. Salvo se venti anni fa quel colloquio in Mediaset fosse andato diversamente, forse. Ma probabilmente là c’era qualcuno di specializzato. Lui aveva imparato solo a capire (più o meno) cosa voleva la gente a colazione. E perché la colazione era scelta – c’entrava il ricordo qualunque, la posizione sullo scaffale, il prezzo.
La sua junior era l’ultima barriera alla capitolazione: “Questa la capiscono solo i social media manager” “No, dai troppo boomer” “Troppo Taffo”. Brava, sospirava lui. Pensa che lei sì che è adatta per il marketing del futuro, in cui ogni brand dovrà far ridere almeno per tre secondi, ma portando un insulso prodotto sul palco. Una nuova forma di stand up comedy all’epoca del capitalismo. Ma la loro generazione aveva sguazzato da piccola in questo caos, erano predisposti alla sopportazione e al divertimento al tempo stesso.
Dai dati di vendita, sempre verificati ma nascosti nelle ultime slide di 156 di report trimestrale, sapeva che tutto questo circolo vizioso di creatività era solo a favore di altri wannabe social media manager rintanati e tagganti nei commenti o in quei due o tre profili Instagram che raccolgono i migliori branded pranks. (Li conosceva perché tra i candidati all’assunzione eliminava segretamente chiunque fosse tra i loro follower). Ma fermare l’impetuosa corrente scatenata da quell’Oreo non era possibile, a ogni evento, e come in ogni maledetto sanvalentino, l’Infinite Jest del real time marketing si espandeva sempre più, infettava altre aziende e poi scatenava il FOMO in altre, e così via.
Già: nel caos della vittoria nessun decisore di acquisto di merendine (se non quelle tre o quattro migliaia di maniaci fedeli seguaci della pagina, chissà per quale malattia mentale) avrebbe condiviso quel geniale post in cui la merendina entrava nella porta degli avversari, tantomeno deciso l’acquisto se non corroborato da uno sconto sanguinoso concordato con la stessa catena distributiva che gli stava per copiare la Merendina Originale.
E quindi subito dopo il rigore, lui sapeva, come altre volte, di conoscere il futuro.
Immaginava che quel tale brand avrebbe usato Coming Rome perché ci teneva a far sapere che era di Roma, quell’altro perché tutte le strade portano a Roma, quell’altro perché Roma non è stata fatta in un giorno, ma con una vita sana e con ingredienti nutrienti e selezionati. Fantasticava che l’acqua minerale sponsor ufficiale avrebbe fatto il verso a Fedez vs Renzi (“ma figurati, l’ufficio legale se li passa col taser”), presupponeva che i delivery si sarebbero inventate qualche gioco di parole con il mangiarsi gli avversari, che Poste e Amazon avrebbero cambiato la destinazione del pacco/trofeo/coppa (Amazon con uno screenshot da due lire – ad Amazon risparmiano, almeno, pensava, come in quella nota storia che usavano le porte come scrivanie). Che la GDO avrebbe sollevato i carciofi al posto della coppa con un ardito Photoshop (anche questi risparmiano, discount marketing). Che il brand di padelle avrebbe copiato quelli del delivery. E che passata l’ondata di piena, tutti sarebbero rimasti esattamente nella posizione da cui erano partiti.
Si tratta di resistere altri tre giorni, poi tutto sarà dimenticato – si faceva coraggio tornando dai festeggiamenti in piazza, dove aveva notato in un bar che le sue merendine allo zenzero, frutto di ore di lavoro infinite sul pack, sugli ingredienti, sul prezzo, giacevano lì, silenziose e solinghe, nell’espositore, in attesa di un futuro migliore. Però – si consolava – ci sono ancora sette mesi di lavoro prima dei mondiali, qualcosa possiamo ancora fare per loro.
Cose sparse
Sto lavorando intensamente per la scuola Digital Update, in cui continuiamo a selezionare e accogliere candidate e candidati per il nostro percorso annuale che parte a fine settembre, e in cui abbiamo già il calendario del primo trimestre. L’idea è fornire competenze, connessioni, esperienze direttamente dal fronte, a persone che devono essere in grado di guidare operativamente una strategia digitale, attraverso un modello più snello e interattivo di un tradizionale master in presenza, ma più intimo e curato di un master online di massa, e soprattutto con un’intenso lavoro assieme, tra studenti, docenti e un prestigioso comitato scientifico.
Fino a fine luglio (o esaurimento posti) la scuola è in early birds, con 500 euro di sconto sulla quota di iscrizione.
Ho partecipato alla registrazione di Digital Tomorrow, il nuovo podcast del Registro .it CNR, che indaga il futuro del digitale insieme a Pepe Moder e ospiti vari, per fornire un punto di vista sui cambiamenti di domani, che poi sono anche di oggi. A parte le mie considerazioni su trasformazioni nei consumi e nella strategia di marketing delle aziende, il podcast affronta dall’Internet of Things alla blockchain, dal 5G all’Intelligenza Artificiale, con ospiti da CNR e delle aziende. Secondo me – ma sono di parte – è un ottimo prodotto. Lo trovate su Spreaker, Apple, Google, Spotify e po’ ovunque sulle solite app per podcast.
Un pezzone su editoria (ma non solo) e 2050.
"Media companies have often been split by mediums: writing in newspapers; audio on radio; video on TV. These distinctions are fast becoming irrelevant with the internet, podcasts, YouTube and social platforms offering all at once in one place. However, storytelling is a skill that requires choosing and manipulating the right mediums. Shouting for “more video” is no good if your content is all about financial news, because the videos will be boring." (nickpetrie.co, News 2050: A 30 Year Outlook for the Media)
Nuovi business model
Grazie Glenda per la segnalazione.
That’s all folks!
Al solito: inoltra la mail in ufficio o in smartworking, se ti è piaciuta.
In astinenza fino a venerdì prossimo? Ci sono le stories dadaiste (cit.), quasi ogni giorno.
xxx, gluca
“Le attività noiose diventano perversamente molto meno noiose se ci si concentra molto su di esse” - David Foster Wallace
Se sei nuovə qui, sono Gianluca Diegoli e mi occupo di consulenza su strategia di marketing e di vendita digitale, (e)commerce e D2C.
Bocconiano anomalo, proud generation X member, smontatore di panacee.
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Ho scritto qualche libro, ma l’ultimo (Svuota il Carrello) è quello che mi rappresenta di più. Insegno in IULM e in Master.
Ho anche creato un mio corso online di marketing (e non di marketing online). Da qui c’è un 10% di sconto aggiuntivo.
Ho co-fondato Digital Update e con altre due tipe più smart di me ho avuto l’idea del primo FreelanceCamp.
Ho creato canvas e un manifesto per la trasformazione del marketing.
Questa newsletter è la sorella gemella del blog che scrivo dal 2004.
Questa newsletter non potrebbe esistere senza Readwise (da qui hai un mese di prova gratis) e senza Refind.