[È venerdì] Pessimi prodotti di qualità
Perché dobbiamo ripartire dal prezzo, e non dalla "qualità", per vendere prodotti eccellenti.
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Mentre piove da qualche giorno mi sono domandato cosa significa fare un prodotto di successo. O almeno non un insuccesso.
Pessimi prodotti di qualità
Ho iniziato da poco un libro interessante, che non parla di marketing come lo intendiamo solitamente e malamente, cioè di pubblicità, ma di prodotto, anzi di innovazione di prodotto. Spesso si dice che in Italia siamo bravi a fare cose, ma non a promuoverle. Come per l’auto-nomina a “il paese più bello del mondo”, credo che in questa frase ci sia un pelo di verità e molta presunzione.
Quello che è vero è che spesso siamo tecnicamente bravi. Facciamo spesso (non sempre: la Duna, l’ARNA, le finestre in alluminio, ecc.) cose belle, veloci, funzionali, saporite. Fino a venti anni fa bastava. Il mercato era semplice si dice ai convegni, ma in che senso? Nel senso che i segmenti erano pochi e prevedibili. Quelli che potevano pagare e quelli che no, spesso direttamente dipendentemente da quanti soldi avevano nel portafoglio. Poi le cose si sono complicate. Le persone hanno cominciato a spendere in modo “insensato”: iPhone in mano a gente che non arriva a fine mese con la spesa, sneakers da centinaia di euro “popolari” con fila fuori dai negozi di gente “normale”, auto di gamma alta a noleggio, barbecue di lusso nella classe media (ehm), microbrand di tutti i settori – dal rasoio alle pentole, dal bio al vintage – emergenti in ogni angolo del web, spesso basati su un’intuizione di mercato, non su di una skill produttiva esistente, che al massimo viene “reperita” in seguito al test di mercato simil-startup: i vincitori di quel gioco al massacro dei soldi economici e disponibili investiti alla roulette dell’innovazione digitale prima pensano al mercato, poi alla produzione (se serve in Cina, oppure ovunque).
I brand top italiani b2c sono tutti nati molti anni fa. C’è molta innovazione di successo in settori insospettabili (meccatronica, biomedicale). Perché? Non ho una certezza, ma ho una teoria: gli innovatori ascoltano molto più i clienti dei propri ingegneri o designer. Nel b2b si arriva alla produzione ad hoc, e quindi la cosa è “normale”. In tante situazioni si ricade nella trappola del prodotto sbagliato, anche se perfetto, di qualità (una delle parole che odio più in assoluto, perché quasi sempre egoriferita).
Perché si cade nel prodotto sbagliato? Ho alcune idee.
Si parte dal costo: non viene mai preso in considerazione quanto è il prezzo che quel particolare segmento sarebbe disposto a pagare. In più o in meno, s’intende. La maggior parte delle persone non ha la minima idea e non gli interessa minimamente sapere quanto ci è costato produrre un certo prodotto. Il prezzo che scaturisce da un markup sul costo è quasi sempre semplice da calcolare, ma sicuramente sbagliato. Soprattutto quando abbiamo inserito nel prodotto delle funzionalità che il cliente non è disposto a pagare, mentre la soluzione potrebbe essere togliere delle cose che sappiamo fare. Variante meno frequente: siccome ci costa poco, lo prezziamo a poco, causa markup. E quindi il solito consumatore irrazionale lo valuta poco o non lo considera per quel che gli potrebbe servire davvero. Ricordiamoci che gli iPhone alla produzione non costano tanto di più di un altro telefono.
Si parte da cosa sappiamo fare: che è pure giusto, per carità. Ma quando ci si balocca con le proprie capacità in modo onanistico, quasi sempre si finisce per sopravvalutarsi. Variante A: “abbiamo tante persone che sanno fare questo e quello, perché non usarli per…” Normalmente invece non vediamo che lo stesso bisogno potrebbe essere risolto da tutta un’altra filiera produttiva – perché guardiamo ancora una volta i tecnicismi e non i bisogni.
Si cerca di difendere il business esistente uccidendo (spesso inconsapevolmente) dentro se stessi qualunque cosa che potrebbe farci concorrenza. Lo faranno volentieri gli altri. Quindi il prodotto non viene mai abbandonato salvo quando è troppo tardi perché “ce lo chiedono ancora”, “ci costa poco”, “i nostri clienti lo amano”.
Non si chiede al cliente, perché noi siamo come Steve Jobs, che lui sapeva che i clienti non sanno cosa vogliono. Peccato che la storia non sia propriamente vera, e nemmeno che i clienti non sanno cosa vogliono. Era molto più vera in passato, dove la scarsità di prodotto e l’asimmetria informativa limitava la fantasia e la ricerca per nuovi prodotti più “adatti” alle proprie esigenze.
Non gli si chiede, appunto, quanto sia disposto a pagare: non solo per il prodotto, ma per le singole componenti di quel prodotto. Ho appena comprato una pompa per la bicicletta: ce ne sono di ubercool, con tanto di indicatore di pressione (“la misteriosa lancetta”). Peccato che io non abbia mai guardato l’indicatore. Al mio segmento di ciclisti pigri non serve nessun indicatore. Pagherei due euro in più per una pompa con indicatore di pressione a LED? Certo che no. Ma sembra di sentirli, dall’R&D aziendale, a dire “ma perché non ce lo mettiamo? Una pompa NON può NON avere un indicatore di pressione. E i nostri sono precisissimi”. E invece può.
Poi ci sono i prodotti nati morti. In generale un mix di tutti gli errori possibili: nessuna richiesta di mercato, genesi da ricerca interna segretissima, un sacco di funzionalità “di qualità”, una comunicazione impossibile da focalizzare (che finisce di solito per prendersi la colpa, come nella metafora del cerino. Abbiamo sbagliato la campagna, eh certo).
Un caso ancora più luciferino è quello in cui ai clienti viene chiesto “lo compreresti?” facendogli pagare a voce con i soldi del Monopoli, magari con una certa pressione psicologica non disinteressata da parte dell’azienda, che oramai non può più fermare il processo, perché sarebbe “una brutta figura” sul mercato cancellare, mentre il prodotto malato viene soppresso in sordina nel pozzo senza fondo degli investimenti. “Appena esce lo compro” rispondono questi, mangiando una tartina. Ma mentono, anche inconsapevolmente. (Sempre, sempre togliere almeno il 50% da quelli “intenzionati a comprare”).
C’è un solo modo per sfuggire alla trappola: chiedere quanto sarebbero disposti a spendere (cioè partire dalla P di Prezzo, anzi da WTP – Willing To Pay): proponendo differenti prezzi, mescolando le carte con le feature, cercando di capire davvero al di là delle risposte formali. Capire quali sono le reali alternative sul mercato, ma senza ricadere nei soliti benchmark di nuovo basati sulle features e non sul valore percepito.
L’unica vera qualità è quella che gli altri sono disposti a pagarci, il resto è virtuosismo.
(il libro è Monetizing Innovation, un po’ prolisso come tutti i libri americani, ma finora vale la spesa)
Il quiz della settimana
Di quanto è aumentata la vendita di bici non elettriche nel 2020 sul 2019, in Italia?
a) +4,5% b) +10,6% c) +14%
Da leggere
Come le piattaforme stanno divorando l’audio (un mio articolo per Link)
SAS apre a tutti il proprio evento annuale, online, qui. Se avete seguito il percorso sul marketing data-based è una bella occasione.
In Cina l’e-commerce dei gruppi di acquisto è in aumento, anche grazie alla collaborazione dei compratori su WeChat
Un vecchio arnese comenil Media Mix Modeling, grazie alla AI, rischia di diventare modernissimo
Gli acquisti di pubblicità dovrebbero essere più di reach e dati demografici, poiché i contesti possono influenzare come le persone reagiscono a un annuncio.
Negozianti
Sarà una battuta per “sorriso(tto)”, “così (so) risotto” o real time marketing per “so’ lillo”?
That’s all folks!
Al solito: inoltra la mail, se ti è piaciuta.
In astinenza fino a venerdì prossimo? Ci sono le stories, quasi ogni giorno.
xxx, gluca
Quiz: c) 14%
Se sei nuovə qui, sono Gianluca Diegoli e mi occupo di consulenza su strategia di marketing e di vendita digitale, (e)commerce e D2C.
Bocconiano anomalo, proud generation X member, smontatore di panacee.
le attività noiose diventano perversamente molto meno noiose se ci si concentra molto su di esse. — David Foster Wallace
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