[È venerdì] Minime esperienze vitali
Perché non serve incanalare gli utenti, ma fornire momenti soddisfacenti.
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Mentre l’anno della marmotta sembra non finire mai, ecco inesorabile un’altra puntata di questa Lettera del Venerdì, che sta per superare le 8.000 iscrizioni, ma soprattutto mantenendo un tasso di apertura sempre attorno al 50%. E incrementando quello che mi interessa di più, le conversazioni con chi di voi mi risponde.
Anche questa puntata contiene un inserto in cui io e SAS assieme cerchiamo di divulgare i pilastri del marketing fondato sui dati, che è già qui.
Minime interazioni vitali per il branding di oggi
Qualche tempo fa scrivevo per il magazine di Marketing Arena, con una citazione che qualcuno riconoscerà, un articolo chiamato “Di funnel e di niente”.
In realtà non credo ci sia stato un momento storico peggiore per tirare fuori il funnel, dalla polvere del cassetto dei ricordi del marketing (si parla di imbuto, anche se la metafora corretta è con la nassa, la rete composta di più coni in cui pesci-clienti si inoltrano e non riescono più a uscirne, nella speranza dei fan del funnel). I clienti sarebbero “spacciati” come dentro a una presentazione di appartamenti in multiproprietà alle Canarie. In realtà, in nessun momento della storia buona parte del customer journey è stato così tanto determinato dal cliente e così poco dalle aziende.
Per poi infierire ancora di più:
Ed ecco che tiriamo fuori l’oggetto magico, cioè il funnel, esaltandolo ben oltre la sua funzione che gli appartiene – quella di de-scrivere come supportiamo il cliente nel purchase path, con quali contenuti, distribuiti su quali dati di target e su quali strumenti. Pensiamo che non sia una descrizione, ma una prescrizione. Il cliente è oggi un pesce che entra nelle nasse, ma sa come uscirne. Anzi, forse non ci è mai entrato davvero. Ci prende in giro.
La mia idea è che mai come oggi il funnel ha poca importanza, e mai come oggi il customer journey ha tanta importanza – oltre che tante modalità e dati per essere analizzato, proprio dal marketing, in collaborazione con tutte le altre funzioni aziendali.
Funnel o non funnel? Al di là della mia idiosincrasia per le mode digitali, che nascondono sempre un doppio fine e un conflitto di interessi, non sono mai arrivato a un punto fermo. Che probabilmente non c’è, beninteso. Per quanto il funnel di marketing sia un concetto totalmente slegato dal comportamento reale degli utenti, da qualche parte dobbiamo pure iniziare a modelizzare content e advertising, in quel combinato disposto che – chi mi conosce sa – mi piace chiamare e descrivere come adcontent.
Cosa dobbiamo salvare del funnel? Non certo la parte alta, non certo l’awareness, che forse andrebbe chiamata semplicemente branding, e inserita come “exposure” in un contesto come quello descritto da Google nel framework messy middle (e ben dissezionato da Roberta Sanzani su Medium). Di certo inserito in un contesto come quello che ho descritto nel manifesto per la marketing transformation. Di sicuro ripulito dal template prestampato imbuto-con-flusso-da-destra-a-sinistra o imbuto-dall’alto-al-basso, e inserito nel modello esagonale di prioritizzazione.
Questa riflessione si è intrecciata con la lettura di La via del marketing per la trasformazione digitale, di Marco Cordioli, oggi marketing manager in Velux. In questo libro, oltre a una parte “colta” e a un elenco di tutti i bias del marketer (che consiglio di leggere attentamente) ci sono alcuni indizi al dilemma.
Il suo punto di partenza è “Meglio essere un detective con un obiettivo piuttosto che un marketer con un piano.” Detto questo, abbracciato il relativismo culturale del marketing, e indicato come il brand (“la parte alta del funnel”) non sia (incasellabile in) un flusso, ma sia invece un’atmosfera entropica e collaborativa in cui il funnel è molto più piccolo e immerso, Marco introduce un oggetto che chiama esperienza minima. Per essere più figo di lui, la chiamerò Minimum Viable Experience (chè è gia usato in UX, ma vale anche per il marketing, l’ho deciso io ora. Sia MVE, è deciso).
Quando una successione progettata, di contenuti e interazioni, fa da ponte tra un bisogno o desiderio e una maggior consapevolezza e motivazione all’acquisto allora siamo di fronte a quella che qui definiamo un’esperienza minima. L’annuncio che intercetta una ricerca (A), seguito da un’informazione che soddisfa il bisogno di conoscenza (B), seguito dall’invito a un approfondimento (C) diventano una singola esperienza minima. Tutti contenuti passanti e finalizzati che spostano il fruitore da A a B, da B a C e lo trasformano. Nella forma, la struttura di un’esperienza minima è sempre composta da una fonte di traffico, un elemento di scambio e una conversione. […] Importante che il messaggio che invita alla prima azione sia “atteso (o rilevante), personalizzato e significativo”. L’elemento di scambio è rappresentato da un trasferimento di conoscenza. […] La conversione, invece, è un passaggio di stato. Certifica l’efficacia dello scambio informativo e rinnova la volontà del fruitore di avanzare nel percorso di avvicinamento al momento dell’acquisto. Rende tangibile la ragion d’essere del contenuto passante. Propone nuovi approfondimenti a valore aggiunto o servizi riservati a coloro che scelgono di accettare lo scambio. Lo fa chiedendo il permesso al fruitore il quale lo può rinnovare in modo esplicito oppure palesando interesse attivo.
Dobbiamo non buttare, ma scomporre il funnel, abbandonandone il senso illusoriamente coercitivo e abbracciandolo in senso supportivo per l’utente. Moderando l’ossessione per la velocità (“remarketing dopo 48 ore, massima pressione!”) e puntando alla soddisfazione. Se è soddisfatto, prima o poi arriverà. Lo faremo spargendo e tirando a lucido tante MVE nel percorso, anche indipendenti tra loro, perché non sappiamo né il giorno né l’ora (cit.) in cui quel momento sarà attivato, né se sarà davvero il cliente che pensiamo dovrebbe essere. Le sequenze di MVE, insomma, non saranno, paradossalmente, sequenziali come nel funnel.
Sul marketing visto da Cordioli aleggia un senso di balance, che mi ha ricordato le visioni utopiche di The Wuffie Factor e The Social Brand, in cui si parlava di rispetto per l’utente e di capitale social(e) e che dovremo forse recuperare, depurate dalle incrostazioni del sogno irreale della gioventù digitale. Sogni di uscite dalla nassa, per percorsi più rispettosi, aggiornati per l’era del dato.
QUANDO LA RETE È PIATTA, MA IL TERRITORIO NO*
* La citazione è liberamente tratta da un libro ancora molto attuale, Location is Still Everything di David R. Bell.
“the virtual world is completely flat, offering the same “package” to both real-world locations. But since the real-world locations for two persons are different, the relative attractiveness of shopping at [different shops] from their given location [...] depends on how it compares to their offline alternatives.”
I clienti sono grandi generatori di dati: ogni volta che usano i nostri servizi, il sito web o l’app mobile, creano micro-informazioni da raccogliere, analizzare ed utilizzare.
Per ogni interazione, al di là dell’azione specifica che compie il cliente, c’è sempre una tipologia di dato che possiamo recuperare ed utilizzare: la posizione. Dal traffico web può essere localizzata la provenienza geografica della sessione, così come l’utilizzo dell’app ci abilita la possibilità di individuare la posizione dell’utente. Capire da dove il cliente sta effettuando una determinata azione ci aiuta a contestualizzarla, a comprenderla meglio.
Le informazioni geografiche possono svelare diverse opzioni di analisi ed engagement:
- Analizzare il territorio in cui si muovono i clienti per definire la giusta distribuzione delle risorse, una migliore copertura della domanda dei consumatori e una corretta segmentazione del mercato.
- Attivare delle azioni di contatto al verificarsi di eventi “geo-referenziali” per recuperare la posizione del dispositivo e utilizzarla in tempo reale per fornire al cliente un'esperienza personalizzata e mirata.
Ad esempio, per definire il territorio di un’agenzia o di un punto vendita, si parte normalmente dalla mappa geografica e si posiziona su di essa la distribuzione dei clienti, usando il dato della residenza. Ma cosa succederebbe se si potessero usare anche i dati geo-spaziali dei nostri clienti? Il fatto che i clienti abbiano installato la nostra app e acconsentito all’uso della posizione ci abilita a tracciarne i loro movimenti. E si potrebbe scoprire, ad esempio, che a un determinato punto vendita accede una popolazione non coincidente con chi abita in zona. Più che la loro abitazione ci interessa analizzare il transito dei clienti nelle vicinanze dei nostri punti vendita: in quali giorni della settimana avviene? In quali fasce orarie? Così da valutare in modo più puntuale quale è il target potenziale che possiamo raggiungere con le nostre campagne.
Se poi un cliente nell’ultima settimana ha ricercato informazioni su un determinato prodotto all’interno del nostro sito, si può interpretare questo evento come una manifestazione di interesse. E finire in target per la prossima campagna mail che promuove quel prodotto. Ma siamo sicuri che non sarebbe più efficace inviare quella mail proprio quando il cliente si trova effettivamente nelle vicinanze del punto vendita? Potremmo anche riconoscerlo, quando entra in negozio e indirizzarlo verso un totem (o inviargli una push notification) per redimere un’offerta dedicata.
L'analisi della posizione è uno strumento fondamentale che aiuta a comprendere i dati dei propri clienti. SAS acquisisce in modo nativo i dati comportamentali dei consumatori, che includono una varietà di attributi geo-spaziali specifici.
Sulla base del profilo comportamentale del consumatore, dello storico dei suoi acquisti e dei modelli analitici, viene valutato in tempo reale se e quale comunicazione personalizzata inviare così da creare una customer experiencerilevante, progettata appositamente per ogni specifico touch-point.
Unificando così il Customer Journey, dal canale digitale fino al negozio fisico.
Vuoi saperne di più? Leggi le info gratuite messe a disposizione da SAS.
Il quiz della settimana
Quale domanda di generi, nella tv in streaming USA, è molto più alta dell’offerta?
a) reality b) horror c) documentari
Negozianti
Il gioco di parole è l’arma preferita (di negozianti e pessimi copy) (Tumblr)
That’s all folks!
Come al solito: inoltrate e spargete minime esperienze, se vi è piaciuta.
In astinenza fino a venerdì? ci sono le stories, daily released.
gluca
Quiz: c) documentari. “Perché inventare storie quando il mondo le fornisce a gratis?”
Bocconiano anomalo, proud generation X member, smontatore di panacee.
le attività noiose diventano perversamente molto meno noiose se ci si concentra molto su di esse. — David Foster Wallace
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Se sei nuovə qui, sono Gianluca Diegoli e mi occupo di consulenza su strategia di marketing e di vendita digitale, (e)commerce e D2C. Ho scritto qualche libro, ma l’ultimo («Svuota il Carrello») è quello che mi rappresenta di più. Insegno in IULM e in Master. Ho anche creato un mio corso online di marketing (e non di marketing online). Da qui c’è un 10% di sconto aggiuntivo. Ho co-fondato Digital Update e con altre due tipe più smart di me ho avuto l’idea del primo FreelanceCamp. Ho creato canvas e un manifesto per la trasformazione del marketing. Questa newsletter è la sorella gemella del blog che scrivo dal 2004.
Questa newsletter non potrebbe esistere senza Readwise (da qui hai un mese di prova gratis) e senza Refind.