Scrivo da una splendida sala fiamminga della sede di Luiss Business School ad Amsterdam (grazie anche a Digital Angels per l’invito) in cui si sta discutendo delle implicazioni tra marketing e AI (cos’altro?), ma soprattutto ascoltando use case pratici. Molti spunti, ma per la prossima settimana. Mi godo il fresco e sogno north-working che non farò mai. Il quiz vi dà un indizio su cosa mi è venuto in mente (la settimana scorsa), ma per capire il titolo dovete leggere fino alla fine.
Il quiz della settimana:
Qual è l'amaro più venduto in Italia?
a) Amaro del Capo b) Averna c) Montenegro
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Non ci sono più brand dal 2005?
Mi chiedo da tempo se l’era digitale sia in grado di creare (non sostenere, che è diverso) brand tradizionali, dove per tradizionali intendo quelli che:
sono consumati in modo massivo e indifferenziato;
non hanno una funzione d’uso urgente;
non hanno una interfaccia digitale costante con il consumatore.
Circa cinque anni fa mi chiedevo:
Pensate a quanti brand di massa (bevande, cibo, auto) sono stati creati dall’advertising digitale. O quanto meno nell’era dell’advertising digitale di massa. Escludete i brand nativi digitali come Amazon, Airbnb e Facebook. Apple in realtà esisteva già, anche Adidas, Nike e la maggior parte dei brand del lusso. Barilla, Nutella, Starbucks, uguale. Non parliamo delle auto.
Non mi viene in mente nessuno. Il digital sembra poter creare da zero solo brand di nicchia, quelli che qui chiamavo microbrand. Un forse lo metterei sui grandi “content brand” come Redbull — al volo non ne ricordo la data di nascita. Ma il digitale in questo caso è solo una minima parte di uno sforzo di marketing smisurato, necessario per far posizionare una bevanda dal gusto dolciastro e dal valore industriale pari a zero in milioni e milioni di teste come qualcosa associabile alle più svariate “avventure”, e in modo da pensarlo perfino un brand “alternativo”. Un altro forse lo metterei nello streetwear à la Supreme. Ma definirlo di massa mi sembra eccessivo. Non so se considerare Chiara Ferragni un brand o un publisher o addirittura una piattaforma, in effetti.
O la storia del branding è arrivata alla fine, o ci deve essere qualcosa, un bug nativo del digital che non abbiamo mai considerato. Tendo a pensare alla seconda ipotesi. L’advertising digitale è come quel pesce che è aggressivo vicino alla sua tana (la ipertargetizzazione) ma perde forza man mano che se ne allontana. L’apice dell’ipertargetizzazione dell’advertising digitale (i sei milioni di versioni di annunci Facebook diversi della campagna di Trump) non avrebbe probabilmente funzionato senza un brand forte (i tweet di Trump, uguali per tutti, la TV).
Ma perché esattamente? Sembra che l’umanità consumatrice di massa abbia bisogno di qualcosa di uguale per tutti, di ancorato alla cultura sociale condivisa, per “fidarsi”, per poter “condividere qualcosa” (che poi è la base di costruzione di un brand) avendo una buona possibilità che qualcun altro sappia di cosa stai parlando.
La creazione di un brand di massa pare essere ancorato a una conoscenza, a un senso, a un valore collettivo, all’aspettativa che anche altri riconosceranno quel messaggio, e che riconosceranno quei valori nel prodotto che acquistiamo, mentre ci osserviamo reciprocamente. E il digitale, perso nei suoi rivoli, sembra non farcela. È in grado di dirmi quale scarpa da basket dovrei comprare su Decathlon, ma non di creare Decathlon.
C’è anche il fattore “quantità di secondi di attenzione”. In un’altra vita, abbiamo dedicato tanto tempo ai brand di massa, perché eravamo obbligati dalla scarsità di media, o semplicemente perché non c’era nulla di più “personalizzato”. Il pubblicitario digitale è frenetico: non fa in tempo a raccontare quasi niente. Se vediamo un’adv digitale di qualcosa che non conosciamo, difficilmente avremo la pazienza di approfondire. C’è sempre qualcosa di più familiare a portata di occhio, perfino in una pagina del Corriere.
Pensavo appunto al mercato degli amari: li conosco perché ho lavorato poco tempo fa a un brand (di nicchia) che cerca di entrare nel campionato dei grandi. Come nelle birre artigianali, c’è più offerta che (forse) domanda. Oggi tutti si possono creare il proprio amaro: ci sono aziende che te lo fanno chiavi in mano, fanno il mix di ingredienti, imbottigliano e ti mettono pure l’etichetta, come le buffe bottigliette di acqua branded ai convegni.
Non ci sono barriere produttive all’ingresso, salvo i costi delle economie di scala. Il brand però, assieme alla presenza massiccia nella distribuzione, è il vero punto di forza degli incumbent, non certo il migliore o peggiore PED, o quei due middle influencer di settore (barman). Ma oggi l’accesso alla TV o alla brand awareness di massa è ugualmente negato. Non tanto per i costi, quanto per l’attenzione.
Come scrivevo, non è stata la migliore creatività di una presunta età dell’oro che ancora serpeggia – come semplificazione e giustificazione, nel settore creativo-pubblicitario – ma l’attenzione forzata. Quando vedevamo veterinari salvare cavalli, amici (sempre maschi, al massimo le femmine si congratulano attorno come groupie, perché l’amaro era – ed è in larga parte tutt’ora – un prodotto a consumo prettamente maschile, che voleva anche surrettiziamente rafforzare quel senso malato di “uomini veri”, che non devono chiedere mai, ecc.), recuperare anfore o ancora improbabili musicisti su chiatte galleggianti, non avevamo niente di meglio da fare o da guardare. Non è che non ci sono più copy in grado di scrivere “Amaro Montenegro, sapore vero”, o “Dove c’è Barilla c’è casa”: è che questo è diventato irrilevante per l’attenzione, la frammentazione, l’abbondanza di messaggi disponibili. Forse, dico forse, anche i campi minati (giusti) del woke stanno rendendo quell’approccio di massa meno efficace.
Sì, perché dal 2005 circa tutto è cambiato. Le audience si sono disperse. Non c’è quasi più niente che risuoni e faccia da oggetto di conversazione per tutti, meno che meno le pubblicità, e questo risuonare era il vero segreto della pubblicità di massa, che infatti, disperatamente, continua ad aggrapparsi a oggetti risuonanti vecchie di decenni (Linus che scavalca una staccionata per l’Olio Cuore), sperando che – come cantava Vasco Brondi – la nostra giovinezza (di gen X) rimanga per sempre su YouTube, cioè che per osmosi generazionale qualcosa risuoni ancora nella mente di chi non ha visto direttamente quella pubblicità in TV.
Oggi ci sono ottimi amari di nicchia (di solito i più venduti su Amazon, proprio perché non hanno distribuzione diffusa), ma i primi per quota di mercato sono sempre gli stessi. Forse l’unica eccezione è l'Amaro del Capo, ma – posso sbagliare – il suo successo è dato più dalla gradazione alcolica e dal cambio di uso (non solo dopo cena, ma anche h24, diciamo, tutto applicato sul pubblico giovane). Vorrei dimenticare invece il tragico copy “fatti il capo” di uno spot di dieci anni fa.
Il marketing insegnato dai negozianti
Forse non lo sai, ma ilmarketinginsegnatodainegozianti.info è mio.
That’s all folks!
Grazie di aver letto fin qua.
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ciao, gluca
Grazie a Daniela Bollini per avere corretto la bozza (eventuali typo sono miei, aggiunti dopo) e a Cristina Portolano per i (nuovi!) separatori d’artista.
Quiz: a) Amaro del Capo (fonte).