Questa settimana mi sono rivisto un film bellissimo. Mi ha innescato alcuni pensieri sul rapporto tra dati, decisioni e realtà (di marketing, e non solo). Tratta di baseball. Data-driven. Ma aspettate a fuggire.
Il film è (qualcuno l’avrà già riconosciuto) Moneyball, tradotto paradossalmente in italiano come “L’arte di vincere”. Il film è tratto da una storia vera.
La trama. Brad Pitt è Billy Beane, un ex giocatore, ex promessa poi non realizzata, ora general manager di una società quasi-vincente, senza troppi soldi, che ha lanciato alcuni giocatori che ora sono migrati verso società più generose in fatto di stipendi. Il team di scout del team, dopo l’eliminazione ai playoff, si mette all’opera per trovare dei sostituti: immaginateli fare nomi, soffermarsi su alcuni tratti particolari (inaffidabile, fisico eccezionale, è una promessa, è goffo, ginocchio malandato, ecc. ecc.). Inoltre, alla fin fine valutano i giocatori sulla base delle valutazioni degli altri esperti e dello stipendio del giocatore. È un loop ed è la condizione perfetta per la creazione di bolle economiche, in questo caso di giocatori sopra-valutati.
Sentite odore di bias sui canali di marketing? Sentite odore di budget da tagliare senza nessun criterio certo? Sentite odore di shiny new things? Sentite odore di best practices? Io l’ho sentito.
In breve: Billy conosce e assume un analista ovviamente-nerd-neolaureato che non sa niente di baseball (e che curiosamente si chiama Peter Brand), ma che ha fatto il reverse engineering delle partite del campionato: quanti punti, strike, fuoricampo sono serviti per vincere, quanti punti, strike, ball, basi sono apportati da ogni giocatore, cose così.
Lo scopo non deve essere comprare giocatori: lo scopo deve essere comprare vittorie. (Peter Brand)
Sentite odore di KPI?
Billy è disperato perché non ha soldi e si affida all’unica vera strategia (che è sempre decidere di fare le cose diversamente), cioè quella di Peter. Così facendo si mettono contro tutti: esperti, influencer, allenatore (ricorda qualcosa? I guru, i giornalisti, il direttore marketing anziano: in ordine rispettivo).
Tra i ventimila giocatori che vale la pena di valutare credo ci sia una squadra da titolo di venticinque giocatori che ci possiamo permettere, una specie di isola dei giocattoli difettosi. (Peter Brand)
Peter sostiene che non bisogna valutare il valore di mercato dei giocatori, bisogna valutare gli apporti in termini di basi/punti e confrontarli con il prezzo di mercato. Il ROI del giocatore.
Ma la strategia non funziona. Perché? Nella trama, l’allenatore non fa giocare i migliori giocatori algoritmici, ma quelli che pensa siano i migliori in quel momento. Più li fa giocare, più la squadra perde.
Sentite odore di insensata concorrenza sugli stessi canali, o sulle keyword di Google?
Fino a che a un certo punto Billy decide di giocarsi il tutto per tutto, e a vendere il migliore giocatore in assoluto, per obbligare l’allenatore a far giocare la squadra data-driven. Manco a dirlo, la squadra vince venti partite di fila, e il film sembra avviarsi verso il disneyano underdog che diventa principe.
E invece la squadra di Billy perde di nuovo ai playoff.
La sintesi marketing è: nessun algoritmo ti farà vincere il campionato senza soldi, ma una buona gestione dei dati ti farà ottenere il massimo da quanto investito, anche perché molti altri useranno gli esperti, che spesso ex post non sono così esperti (lo sa Billy, che ha lasciato il college perché gli esperti sostenevano che fosse un campione, ma l’algoritmo di Peter gli avrebbe detto di no).
Certo, il marketing verso quelle strane bestie chiamate umani non è semplificabile come il baseball. Ma anche gli strumenti oggi a nostra disposizione sono potenzialmente in grado di valutare ben più di venticinquemila giocatori. Il marketing mix algoritmico non è fantascienza.
Sento arrivare l’obiezione: basandoci solo sui numeri a breve non teniamo in considerazione che mentre una partita di baseball si conclude al nono inning, e quello che è stato è stato, il brand e il suo ricordo sono fattori molto meno misurabili e ottimizzabili, ma altrettanto potenti quando si tratta di produrre valore nel lungo termine. Sono d’accordo. Ma al momento siamo ancora troppo come gli scout di Moneyball: “L’ho visto fare un post di Facebook che ha avuto mille mila like”, “Quella campagna ha vinto Cannes”. E sento Billy dire: “Se ha vinto un premio, perché non vendiamo?”
È un film che dice che si possono fare rivoluzioni e vincere, ma fino a un certo punto: poi se la tua rivoluzione non è forte abbastanza o non si allea con l’esistente, il tuo potenziale rivoluzionario viene in parte sconfitto e in parte assorbito.
(Il virgolettato è di un post sul film di Luca Sofri, che ho riletto dopo aver scritto il mio).
In ogni caso, guardatevi il film e giratelo al vostro marketing, finché è su Netflix.
PS: sull’uso dei dati sbilanciati sul breve ho una mia teoria, che chiamo l’efficiente attrazione della mosca per la torta. Nelle prossime newsletter magari ne parlerò.
Dalla prossima settimana invece su questi temi riprende la rubrica Marketing Data Driven, in collaborazione con SAS, con cui risponderò ad alcuni dei dilemmi del marketer di una puntata precedente.
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