Bentornatə, sembra passato tanto tempo da quando ho scritto l’ultima lettera, eppure sono solo un paio di settimane. Questa cosa non vi fa un po’ paura?
Questo numero della newsletter è in collaborazione con Most - Studio Editoriale.
Quale sarà il ruolo del brand nell’era della connessione permanente?
Il brand è sempre stato fondamentalmente una scorciatoia mentale per gli acquisti e in molti casi un bias, un pregiudizio irrazionale che serve a raggiungere quel "good enough” che è poi ogni scelta. Ora che tutto è reputazione per scegliere servirà trovare nuove scorciatoie.
Nel marketing anglosassone si usa il termine mental availability, che potremmo tradurre come «probabilità che un cliente pensi a un particolare brand in una situazione di acquisto». Ma nell’era della connessione permanente, in un content shock generalizzato la quantità di informazioni a cui accedere è elevata e la mental availability è inevitabilmente scarsa. Qualche anno fa Scott Galloway sosteneva che Amazon (e la Rete in generale) era lo strumento che avrebbe distrutto il concetto stesso di brand: inteso come un insieme di pubblicità di massa, scaffali, promozioni che non era più adatto all’era connessa.
Amazon has said by using technology and a billion people who will write reviews and then putting in algorithms, we can destroy that price premium that brands have commanded through consistency, all this advertising, and all these things like packaging and shelf space and in-store promotions that we can go after, it really doesn’t add any value and we can destroy it. (video qui)
Galloway mette il dito nella piaga della crisi del brand. In un mondo analogico, non c’era per il consumatore altra soluzione alla complessità che comprare il marchio più conosciuto. Oggi è facile verificare il valore, l’affidabilità, perché i mercati digitali hanno dato la possibilità a i consumatori di far sentire la loro voce e di ritrovare le esperienze degli altri attraverso le recensioni e le ricerche su Amazon e Google. Il social proof sta diventando la vera scorciatoia, lo vediamo in quelle nuove forme di televendite digitali che sono le stories, i reels, i tiktok pubblicati da creator e influencer rivolti al pubblico che si fida di loro. Ci fidiamo di chi ci piace. Ma ci fidiamo in realtà anche dello sconosciuto che ha lasciato la recensione al bed and breakfast che abbiamo trovato su Airbnb. Non è un caso che i marchi delle catene alberghiere non siano più importanti come negli anni 90.
In un certo senso, nella connessione permanente il brand è ancora più importante di prima: solo che il potere non è più nelle mani di chi era deputato a crearlo o svilupparlo. Oggi il brand è infatti quello che gli altri dicono di te, a partire dalle esperienze e dalle connessioni che si sviluppano nell’ecosistema digitalizzato.
È un consumatore più informato, più esigente, quello uscito dal Covid-19. Un consumatore che si aspetta rispetto, frictionless e attenzione ai propri valori, ma davvero. Spesso in passato i comunicatori hanno umanizzato il brand, utilizzando termini come fedeltà, fiducia, sentiment, engagement e lovemark. Ma umanizzandolo solo a parole hanno anche mistificato il rapporto tra brand e persone, pensando che giri tutto intorno a questo. Dopotutto a guardare le ricerche di mercato le persone non sembrano avere molta fiducia in Facebook, eppure cinque miliardi di persone lo usano.
È evidente che la prossima fase della vita del brand passerà molto di più dalla comprensione delle dinamiche sociali e culturali, dalle coproduzioni delle community digitali e molto meno da loghi e linee guida calate dall’alto o contenuti digitali patinati creati in serie per accontentare gli algoritmi. Nonostante l’umanizzazione, i brand non diventeranno persone, ma passeranno per le persone, i creatori, gli appassionati per mantenersi vividi nella mente del consumatore distratto. Le connessioni diventeranno le nuove scorciatoie. Nuovi bias.
Quiz della settimana
Qual è la quota di mercato nel 2021 della birra analcolica?
a) 2% b) 1.3% c) 0.7%
Link vari sul c.d. Web 3.0
Cosa ne dice l’ex CEO di Signal (“è tecnicamente insensato”)
Cosa ne dice Stephen Diel (“una cagata pazzesca”)
Un riassuntone pazzesco e “attenzione a trovarne un uso solo perché ci piace il concetto di blockchain”
Negozianti
That’s all folks!
Grazie come sempre di aver letto fin qua, condividila se ti è piaciuta. Più sotto puoi offrirmi un caffè virtuale, che però io userò davvero per il caffè.
Ah, puoi seguire le mie quotidiane e dadaiste stories (cit.) e il mio canale Telegram sui dati post-Covid.
Ciao, ci si risente a gennaio. Ah, no, è già gennaio!
gluca <3
Quiz: c) (fonte riservata)