[È venerdì] E-commerce, dati e opinioni
Sono stato - virtualmente - al Netcomm e come al solito lo commento
Quest’anno avrei voluto tornare al Netcomm, ma un famoso virus ci ha messo lo zampino (sto abbastanza bene, tutto ok, grazie Moderna e Pfizer, però questa newsletter potrebbe risultare un po’ più “a getto”, in caso perdonatemi).
Ma niente paura, me lo sono guardato in streaming, che è anche più comodo per fare gli screenshot. Niente gadget però, non so se siano tornati, magari in versione green (la pallina antistress compostabile? Lo stand in plastica riciclata?).
Dunque, i dati: niente di inaspettato a dire il vero. Poi ci sono le previsioni degli esperti/sponsor.
Dopo la puntata della serie sui corollari al mio Data Driven Marketing Manifesto, commento quanto si è detto al Netcomm.
In collaborazione con
Garbage In, Garbage Out?
Un famoso detto dell’industria del dato è “Garbage in, garbage out”. Cioè se i dati sono spazzatura, anche le azioni basate su quei dati lo saranno. Una survey tra CEO (HFS) indicava come il 75% non aveva un alto grado di fiducia nei propri dati. Un altro studio (Gartner) indicava come il 40% dei dati aziendali fosse inaccurato, incompleto o non disponibile. La credibilità e l’affidabilità dei dati possono essere chiave per la strategia aziendale. Da dove si deve partire per assicurarsi che i dati siano ben raccolti, rilevanti, affidabili?
Preliminarmente serve che i manager percepiscano come buona la qualità del dato da utilizzare. In caso contrario, chi si azzarderebbe a sostenere una decisione se le analisi (basate su dati effettivamente corretti, ma di cui non ci fidiamo) suggerissero delle scelte controintuitive? Probabilmente si attribuirebbe la stranezza dei risultati a dati di partenza sbagliati. La strategia data-driven sarebbe morta in partenza.
Qual è il processo ideale per ottenere dati oggettivi, puliti e degni di fiducia? Esistono tre fasi:
1) L’acquisizione del dato: è in generale il momento più delicato, perché spesso si acquisiscono dati da un sistema esterno, oppure perché il dato è presente ma in formato non strutturato, ad esempio del testo libero, oppure perché il dato coinvolge sistemi che non sono stati pensati per tracciare un particolare fenomeno. Facciamo qualche esempio:
- Dati da sistemi esterni: il punto è la configurazione dei protocolli di comunicazione ma, soprattutto, è importante verificare periodicamente la presenza di cambiamenti nel sistema che ci fornisce i dati.
- Dati in formato “scomodo” o destrutturato: la soluzione è tecnologica; un esempio? L’estrazione di informazioni significative dal testo libero, come le note del CRM oppure, nel caso di una banca, dalle causali dei bonifici dei propri clienti; ed ecco che dati apparentemente inutilizzabili classificano abitudini e interessi dei nostri clienti.
- Dati su sistemi “non preparati” by design a tenerne traccia. Un esempio è il comportamento degli utenti sul sito o in app, che viene tracciato attraverso gli analytics che ci forniscono generali funnel di acquisizione. In realtà, potremmo scoprire per ogni singolo visitatore su quali prodotti si è soffermato.
2) Elaborazione del dato: in primo luogo serve uno strumento affidabile che permetta di costruire un processo automatizzato di aggregazione del dato, ricevendo tempestivamente eventuali segnalazioni di errori. In secondo luogo, per passare dal dato all’insight, è ovviamente necessario poter combinare le fonti tra di loro: questo può avvenire autonomamente, attraverso dashboard intuitive a portata di marketer, oppure attraverso modelli più complessi creati da data scientist per analisi meno frequenti, con l’intervento o meno di correlazioni generate da IA.
3) Visualizzazione del dato: avere a disposizione report che si aggiornano in tempo reale, facilmente distribuibili internamente anche attraverso grafici ottimizzati per l’obiettivo desiderato, che suggeriscono nuovi approfondimenti e in cui il marketer può interagire in autonomia, contribuiscono a creare cultura e fiducia nel dato. Il cerchio si chiude.
Scarica il Manifesto del CMO Data Driven realizzato in collaborazione con SAS per scoprire i dieci punti che contraddistingueranno il lavoro dei CMO nei prossimi anni.
E dunque, il Netcomm?
Dunque, se non avete molto tempo la cosa principale uscita dal Netcomm è che il grande balzo dell’e-commerce si è fermato, siamo tornati al classico 10-15% di aumento anno su anno, però ripartendo da un gradino molto più alto. Delusione? Mannò. (Su questo ho scritto una newsletter poco tempo fa, dicendo in pratica che parlare di e-commerce ha sempre meno senso).
C’è da dire che un aumento del 10% annuo nel giro di dieci anni porterebbe l’incremento finale al 259%. Se oggi l’e-commerce vale il 10% del venduto di prodotto b2c, in dieci anni potrebbe valere il 25-30%, tenendo conto della stagnazione dei canali fisici (salvo i discount). E il 30% cambia completamente le regole del gioco, dettando legge sulla logistica e i suoi prezzi, le esperienze fisiche che diventano sussidiarie al digitale, la trasparenza dei prezzi/mercati, i modelli di delivery e di collect, i modelli di raccolta dei dati, perfino l’esistenza stessa di formule come i franchising, ecc.
Tornando ai dati: naturalmente si fanno un sacco di acquisti via smartphone, naturalmente 2/3 degli acquisti vanno verso i pure player (2/3 di questi due terzi sono di Amazon); quindi se siete un negozietto solo-online fai da te non è una buona notizia, anche perché l’e-commerce diventa concentrato. Anche perché quell’acquisto da mobile non è dal browser mobile, ma dalle grandi app, Amazon, Zalando, Shein, ecc.
Ci sono poi i dati settoriali: cresce ancora il grocery (non era scontato, anche se parte da numeri comunque bassi), la casa (idem), crescono meno i pionieri (elettronica e fashion). Ma ormai la competizione è più intrasettoriale, conta piuttosto poco sapere se qualcuno compra quella categoria online – la risposta è sì. La competizione è sul modello di business: nuovi portali di aggregazione e/o delivery, differenziazione/distintività del brand e relazione continuativa per il direct to consumer, presenza su tutti i diversi operatori online (un po’ come nel fisico: in più negozi sei, più hai probabilità che qualcuno ti compri).
Alcune note sulle opinioni, invece:
Livestreaming ecommerce: si è detto che faremo tutti acquisti come nelle vecchie televendite, ma sul web. Ci credo? Forse no, almeno qui in occidente. Potrebbe essere interessante per alcuni prodotti in cui le funzioni di uso o di ambientazione sono fondamentali (pentole, cosmesi, cucina, ecc.). Non certo per la maggioranza però. Il live ha costi elevati di contatto, casting e fruizione.
Social Commerce: idem, grande futuro promesso varie volte, anche a Netcomm. Ci credo? Acquisto sui social? Ok, ma solo per beni di impulso, per fundraising di ONG. Scoperta sui social? Tutto il resto. Dipende da cosa intendiamo per social commerce.
E poi vorrei commentare le solite generalizzazioni generazionali presenti ormai a ogni evento: per esempio su come la Gen Z debba essere la più purpose driven di sempre. Può essere anche vero, ma piano con il trionfalismo: è la stessa Gen Z che ha portato Shein ai primi posti in classifica degli app store, e la trap non esattamente ethic-driven nelle classifiche di Spotify. Io credo che ci siano più differenze all’interno delle generazioni che tra generazioni: del resto, parliamo sempre di personalizzazione estrema come fine ultimo, e poi discutiamo di generazioni?
Comunque, non che sia una colpa comprare da Shein: è che ognuno fa anche i conti con i soldi che ha. Ma se pensiamo di usare la purpose per alzare i prezzi (“essere premium”), ehi, attenzione che potremmo avere sorprese. Sono gli stessi Gen Z che nei commenti su Instagram stanno partecipando a una bizzarra operazione di About You?
Non ho niente contro About You, ma non è certo un esempio di sostenibilità.
E il metaverso? Nonostante le presentazioni ottimistiche, io per il momento sono sempre in modalità Nanni Moretti.
E il Buy Now Pay Later? Niente di nuovo: con Klarna e gli altri è arrivato il Findomestic nell’e-commerce, in formato rapido e semplice come deve essere. Il fatto che le persone si indebitino per comprare prodotti di consumo da pochi euro mi riempie di tristezza. Ma tant’è, forse sono io, e fa il paio con i tempi e i soldi che corrono. Però il marketing lo racconta come “La facilità nella gestione del proprio budget è uno dei motivi per cui BNPL sta conquistando molti utenti in Italia.”
Be personal? Be immersive? Be meaningful?
“66% of consumers positively value personalized creativity and messages when choosing a brand”
A volte mi chiedo se non ci stiamo ingannando, come quando ai tempi dei blog aziendali e del Cluetrain Manifesto credevamo che “ogni consumatore volesse entrare in relazione con il brand”. Oggi tutti dicono “le persone vogliono esperienze immersive e personalizzate”, magari sulla base di sondaggi qualitativi.
Ok, quindi forse anche meno. Le persone, secondo me, nella maggior parte dei casi vogliono essere disturbate il meno possibile per quanto possibile. Ci pensano molto poco: in realtà, fiducia, lovebrand, fedeltà sono tutti paroloni che ci raccontiamo. Anche se questo scambio equo lo chiamiamo, in gergo tra marketer, “relazione di fiducia” (dati in cambio di promessa di rilevanza), non dobbiamo esagerare nelle aspettative: una relazione di rispetto sarebbe più che sufficiente. “Brand, fai il tuo lavoro con i miei dati che probabilmente hai anche già da qualche parte se non sei così pigro da non usarli e mandare invece tutto a tutti, e non mi stare troppo addosso però, che ho anche altro da fare nella vita.” C’è tanto da fare anche solo per questo obiettivo minimo.
Ah, già, di nuovo purpose: a sentire Google è impossibile fare business in futuro senza un purpose DNA del tipo “siamo green, siamo etici, siamo sostenibili”. Si riporta il dato che il 65% delle persone vuole comprare sostenibile (qualunque cosa significhi), ma che solo il 20% lo fa. La causa? “Non ci riescono”. La soluzione – se ho capito bene – è “immersività”. What? Il problema vero sarebbe più chiaro uscendo dalle ricerche di McKinsey e simili e andando in giro: molta gente sta risparmiando/valutando quanto gli viene in termini di qualità e quantità per i soldi che ha oggi, meno una percentuale di rischio/risparmio. Google, la gente usa Klarna in tre rate per comprare un rossetto!
Ok la purpose, ma il prezzo vince ancora. La gente vuole comprare sostenibile (o lo dice per adattarsi alle aspettative nei sondaggi), ma poi va a fare la spesa da chi “blocca i prezzi”, naturalmente a scapito di chi li produce, che a sua volta si rivale sui fornitori e sui dipendenti, ecc. ecc. Non è questione di fare un giochino in realtà aumentata, ahimè. È un percorso lungo, in cui la coperta è corta, e chi rimarrà con i piedi al freddo è tutto da vedere.
Il quiz della settimana
Quanto ha speso Starbucks in pubblicità, nel 2021, % sul fatturato?
a) 0,3% b) 1% c) 3,3%
Appuntamenti e link
Una storia meravigliosa: marchi registrati negli USA dalle aziende cinesi per vendere su Amazon e la loro filosofia “vendiamo ciò che viene richiesto”.
Ah, la Scuola per Digital Strategist 2022-2023 è a prezzo – ancora per poco – ridotto, in più hai un ulteriore 10% di sconto per chi legge la newsletter, parola d’ordine ovviamente VENERDÌ. Parlane a chi sai tu in azienda. Se l’azienda sei tu, risparmi tempo, in effetti.
Trasformazione digitale e b2b, mix impossibile? Ne parlo in un webinar con Giorgio Soffiato, per il ciclo Digital Talks di Registro .it. Ci si iscrive qui.
È uscita la pazzesca mappa del Martech 2022 di Scott Brinker, un must per i marketer, e soprattutto le stackies, cioè le rappresentazioni delle martech stack aziendali.
Negozianti
Diversificazioni.
That’s all folks!
Anche per questa settimana è tutto. Se vuoi segui le mie storie post-capitaliste su Instagram.
ciao!
gluca
Quiz: b) 1% (Statista + Wikipedia)
Grazie alla professionale correzione bozze di Daniela.