Questo numero è sponsorizzato da Banca Etica.
Insomma, sono lì che ancora una volta mi sto annoiando aspettando un treno e vedo la notifica di TIM che mi invita a giocare al solito TIM P a r t y con un premio allettante (un nuovo TV HD-più-più-super-mega-wide-curve di Samsung, mi pare, questa settimana). Scorsa settimana giochini scemi di matematica, in questa un gira la ruota per ogni tap. E che faccio, non gioco? La notifica mi guarda. Gioco.
Naturalmente non vinco mai, che è abbastanza naturale visto che il montepremi sarà di venti televisori e gli abbonati di TIM 30 milioni. Non ho idea di quante persone giochino ogni settimana, e quindi a questa analisi manca un parametro importante. Ma ovviamente non è la mia sfortuna o meglio statistica personale il punto.
Il concorso è sempre stato una questione di discussione negli uffici marketing analogici: di quelle cose che, a volerle giustificare, un dato a supporto si trova sempre — o in mancanza, un aneddoto, tipo che una persona ok non ha vinto il premio ma poi L’HA COMPRATO – magari buttandola su di una metrica vanitosa a caso come il numero di contatti sul sito del concorso. Molto spesso comunque è la predisposizione del direttore marketing ad avere l’ultima parola: dipende dal livello di ludopatia aziendale, potremmo dire, limitato solo dai costi di burocrazia borbonici che questo strumento, in Italia, a fare le cose fatte bene, comporta.
Il digitale ha ampliato, come per ogni attività, la frammentazione, e i concorsi non solo non si sono estinti, ma anzi sono ovunque, pur mantenendo una certa gerarchia nobiliare. L’apice della piramide è quando puoi spendere in grande e creare quello che in gergo si chiama concorsone, dove metti in palio auto, iPhone, monopattini e altre cose aspirazionali di uso/adorazione sufficientemente comune da essere equiparate ai contanti per appetibilità – ma che costeranno meno all’azienda di quanto “valgano” agli occhi del giocatore – e poi le diffondi su mezzi di massa come TV, volantini, radio, affissioni, per la gioia dei pubblicitari. E poi speri che arrivino i nuovi clienti.
Sì, perché come per i programmi fedeltà, i migliori clienti sono i principali nemici. Saranno quelli giocheranno tutti i giorni, raccoglieranno più pergamene della fortuna, si sobbarcheranno ogni sbatti/friction di partecipazione, ritaglieranno i package e incolleranno (o andranno sul sito a incollare un codice alfanumerico lungo e difficile), quantomeno perché già ci vanno comunque in negozio o comprano già quel prodotto: “vuole la cartolina per il concorso? Si vince una Smart!” “E perché no!”. Quelli che arriveranno dai competitor a causa del concorso saranno molti di meno, e molto molto meno fedeli dopo la partecipazione. Del resto, il motivo dell’infedeltà era chiaro fin dall’inizio. Nessun concorso dura per sempre.
Il secondo nemico (a volte un ibrido dei due profili) del direttore marketing ludopatico è il concorsista, organizzato e agevolato, in una sorta di doppio gioco, da siti appositi che raccolgono tutti i concorsi di tutti i brand. Chi fornisce le informazioni ai siti? Ma naturalmente le stesse agenzie che creano i concorsi, perché ci tengono che molta gente partecipi, naturalmente. Tutti pazzi per i concorsi è la tagline di questa user persona di riferimento. Qualsiasi marca va bene purché si vinca un tostapane, una crociera, uno scooter. Vincere i concorsi è un lavoro, è come giocare a poker. Non è fortuna: è efficienza e sistematicità a scapito dei dilettanti.
In fondo alla piramide dei concorsi c’è l’inferno dei dannati dei giveaway. Àlzati su di una gamba sola, metti like al post, segui il mio profilo, taggami in una stories e parlane a cena con il tuo fidanzato per forse avere questo “regalo” (mai nominare concorso o vincita o simili definizioni). Spesso tutta la faccenda tocca all’influencer pagato sia per creare che sorteggiare un commento, senza nessun controllo, su random.org. Certo, una cosa così la puoi fare legalmente solo per oggetti di modico valore — cosa sia il modico valore la legge italiana non lo spiega. Quindi, a vostro rischio. In questo caso la motivazione del brand è quasi sempre di pseudo-vanità, quindi se questi nuovi follower siano già clienti o no, o se lo saranno mai, è secondario. “ENGAGEMENT, guarda che numeri!” si mormora guardando la slide presentata dall’agenzia al dir. Che quell’engagement sia passato davvero al brand o sia rimasto all’influencer, bon, ci penseremo dopo. In fondo abbiamo investito cento cremine e un po’ di pocket cash per le influ, manco vale la pena fare i conti.
(Oggi l’unico motivo per fare concorsi è arricchire i database con dati di prima parte, punto. Ma con informazioni sensate e che siano riutilizzabili per portare a miglioramenti nel targeting, nel funnel, nella clusterizzazione e personalizzazione, e nell’acquisto di ads. Ma si sa che nel marketing i motivi non sono sempre le motivazioni.)
E poi c’è TIM P a r t y. Per me è un mistero (se qualcuno/a vuole svelarmelo anonimamente sarà il/la benvenuta). Perché far giocare un già cliente TIM su giochini scemi? Non è per i dati di prima parte, non è per conoscere meglio il cliente. Il mio proverbiale follow the money (or at least the vanity) arranca. Sarà perché vende spazio visibilità notifiche (per esempio) a Samsung in cambio di 10 miserrimi e magnifici televisori? Sarà un modo di ingaggiare e fidelizzare il cliente, idea uscita in qualche focus group? Sarà che in sua mancanza l’unico contatto con TIM sarebbe l’emissione della fattura? Ma e se anche fosse, mica ci sentiamo soli. Sarà che qualcuno arrivando sulla app compra qualcosa quindi converte? Sarà che l’unico motivo è che in fondo ci sono i soldi per farlo? L’enigma rimane.
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