Spesso, soprattutto in questo periodo, leggo sui social dei pipponi infiniti su come ci sia bisogno di staccare, di ricaricare: queste persone raccontano – collegandosi – di come si siano disconnessi o saranno disconnessi. Essendo cinico nell’anima, penso inesorabilmente che me frega a me di cosa fai tu nella tua vita. E quindi mi sento un po’ a disagio a scrivere una newsletter un po’ più personale del solito. Ma amen, ormai sono partito a scrivere, e quindi la finisco.
Questa newsletter è dedicata a un amico che è mancato la scorsa settimana. Come tutte le persone colte e intelligenti era più umile della media. Ma non dimesso, ne succube di nessuno. Mi ha insegnato tante cose, qui cito solo quelle professionali: ad avere dubbi sulle metriche “passive” (views, impression, engagement ecc.), a guardare la luna (al mercato) e non il dito (la UX) quando un business non funziona, a pensare che negli ecommerce conta tantissimo quello che non si vede (prodotto, acquisti, logistica), a come alla fine tutto sia questione di domanda e offerta, e poi solo dopo di SEO e di SEM. Come tutte le persone che ne sanno più di ecosistema che di come ci si comporta in azienda per fare carriera, non ha forse raccolto tutto quello che ha seminato. Ma come tutte le persone superiori non lo faceva per fare carriera, né per arricchirsi. Potrei dire passione, ma passione è spesso qualcosa di limitante, un po’ fatuo. Il suo era più dare un contributo, un senso, più un dovere etico e morale verso gli altri, fossero i datori di lavoro o i contributori di un oscuro gioco di ruolo digitale online. Ciao B., non ti dimenticheremo.
Come ogni anno, ho passato qualche giorno in giro da solo. Cosa che spaventa o rattrista la maggior parte delle persone. Eppure stare da soli è un esercizio necessario. Ed è molto diverso dal sentirsi soli. Serve per meditare, raccogliere i pensieri… ahahah, no, serve solo per stare soli per un po’ e osservare. Osservare riposa e ricarica. Ah, e per scappare dalle zanzare.
Ho preso un posto isolato, a caso, su Booking, e sono andato. Sulle colline parmensi, per la precisione. L’Appennino è un posto particolare: non montagna da turismo vero, non provincia da business moderno, non pianura da agricoltura intensiva. È rimasto lì così, indeciso su cosa fare. Tante seconde case lasciti di avi partiti per la padania piatta o la città, poche rimesse a nuovo con aggiunta di piscina se i discendenti hanno fatto fortuna, altre malandate e un po’ rappezzate alla meglio, come se fossero appartamenti di periferia semplicemente spostati per qualche mese a qualche centinaio di metri di altezza. Il paese collinare capoluogo comunale è sempre quasi uguale, almeno da Piacenza fino alle Marche: c’è un ristorante fermo agli anni 70 come il suo menu e gli infissi in alluminio, un negozio di specialità locali che però espone in vetrina anche la pasta Barilla, il latte Granarolo e il dado Knorr, la gelateria per far sfogare i ragazzini, un bar di anziani ruminanti (i rimasti e i ritornati) in cui c’è spesso in vista una rabbiosa La Verità o un passivo aggressivo Resto del Carlino a disposizione, come oggetto di discussione. La montagna ti rende diffidente dai foresti, e il mondo, da lì, sembra impazzito davvero. “Però Said lo spazzino è bravo”. Del resto, lo sporco è davvero poco, quando ci si conosce tutti e buttare una cicca in terra ti fa lo stesso effetto che buttarla nel tuo salotto di casa.
La gente ti osserva, tu osservi la gente. “Che ci fai qui?” leggo negli occhi della ragazza barista/cameriera stagionale che non vede l’ora di ri-scappare a Parma – di sicuro sta chattando con le amiche già a Riccione. Sì, perché non sembro un pellegrino (cioè un camminatore della via Franchigena, o del cammino degli Dei, o di chissà quale altra leggenda pedonale rivitalizzata dalla locale proloco e dal passaparola di coloro che vogliono trovare se stessi faticando come muli per una settimana). Non ho infatti la maglietta colorata antisudore e lo zaino, nemmeno una cartina geografica vintage di carta in mano. Non ho nemmeno camicia e pantaloni lunghi, quindi non posso essere il nuovo bancario mandato per punizione alla locale agenzia.
La maggior parte degli alberghi sono in vendita, o chiusi da anni, simbolo di un passato in cui per andare in villeggiatura ci si accontentava di fare 40 chilometri. Alla gente piace cullarsi con lo storytelling de "i piccoli borghi”, della slow life, ma poi si accorge che sono due palle e scappa a Formentera.
Ogni tanto apre l’attività in nuova gestione di quelli che dalla città volevano scappare, hanno visto l’affitto a 100 euro al mese e hanno pensato “ma se aprissi…”: la continuazione dalla frase è solitamente un birrificio artigianale, un agriturismo ecologico e sostenibile, un ristorante bio con 10 coperti. Di solito si stancano dopo poco — dopo che tutti gli amici cittadini gli hanno fatto visita – e tornano in città. Quelli al bar con La Verità in mano si dicono “te l’avevo detto”. L’età media è molto alta, come la Florida, ma senza i soldi.
In ogni borgo appenninico dotato di sufficienti curve transitano i motociclisti che per qualche ragione che non comprendo si divertono tantissimo ad andare su e giù per le montagne. Ma, appunto, a sera se ne tornano a casa. Lasciano più inquinamento che soldi, credo. Forse i comuni dovrebbero trasformare i loro tornanti in parco giochi per motociclisti ossessivi con tanto di biglietto, un nuovo skipass.
Di solito in ogni paese c’è una rovina locale risalente a qualche guerra di bande nobiliare del passato: una torre, un castelletto, di solito distrutti nel 1500 per dispetto dai seguaci del duca del paese accanto, e poi usati come comodo e gratuito magazzino di materiale edile. Il rudere se fosse, per dire, a Cipro sarebbe meta di pellegrinaggio turistico di inglesi e russi. Se fosse in Croazia (o a San Marino) da quelle due pietre ci ricostruirebbero sopra Camelot e organizzerebbero una sceneggiata in costume. Qui di solito la rovina è chiusa alla visita perché il custode volontario ha 99 anni e sta riposando, ma anche se fosse aperta, ehi, ci sono più ruderi che persone, in Italia. Poi c’è gente strana, come il mio padrone di casa, che ha lasciato l’Inghilterra per venire a trasformare case in mezzo alla collina in Airbnb e piazzole da campeggio (lasciami la recensione!), e affittarle a turisti rigorosamente nordici di passaggio – un italiano considera poco dignitoso fermarsi nel nulla con una tenda. Ma lui sembra felice, chissà cosa si è lasciato dietro. Qui però ha messo un wifi potente, e perfino Netflix sulla tv. L’ho guardata un attimo, quasi solo per dargli soddisfazione, lasciare una traccia dei miei gusti nella cronologia condivisa.
Poi c’è l’amministrazione locale, rigorosamente lista civica con simbolo tipo aquila (anche se l’uccello in questione non si è mai visto) o frutto di bosco a caso (specialità locale invariabilmente da rivalorizzare), che sì è data da fare a suo modo per illustrare le ricchezze del territorio. Di solito ha piazzato anni fa dei QR code sui monumenti (a volte questi scaricano illeggibili PDF scritti con caratteri minuscoli, o il dominio è scaduto e si sono dimenticati di rinnovarlo), la provincia che ha messo cartelli e frecce con “la strada dei sapori” ma credo che nessuno sappia dove porta, da dove arrivi questa strada e perché. Poi c’è il new business: di solito il ricco del paese che possedeva già il negozio con tutte le licenze (può vendere dai pallettoni da fucile fino alla soppressata) ha deciso di noleggiare le ebike. Di solito però ha aperto l’attività per divertirsi ad andare su e giù dal paese con questa Tesla a due ruote più che per altro. Così finalmente abbiamo la montagna ma con la comodità della pianura.
Passate un buon ferragosto, fate quello che vi pare, non siete obbligati a spiegarlo.
gluca