Questa è la versione estiva della lettera: per rubriche, analisi e altre cose più serie se ne parla a settembre.
Dei chewing gum non parla mai nessuno
Ero per qualche motivo sintonizzato su Radio Deejay, probabilmente per pigro default estivo in cui nemmeno hai più voglia di smanettare su Spotify, e in auto con mia figlia attraversavamo una sonnolenta pianura riarsa nell’adorato comfort dell’aria condizionata spargendo polveri sottili nel nulla, quando per qualche motivo determinato dalla chiacchiera del conduttore radiofonico ci è venuto in mente uno spot televisivo, in cui – a memoria – un tipo faceva con la lingua degli origami (su questo particolare non eravamo completamente d’accordo, in ogni caso usciva dalla bocca qualcosa di spettacolare).
Concordavamo che fosse uno spot con tre caratteristiche:
1) vecchio (come l’aveva visto lei? Su YouTube? O venivano tramandati oralmente, come leggende indiane ai bambini?)
2) di un chewing-gum (d’ora in poi CG, che nella mia infanzia si chiamava, a seconda del lato dell’immaginaria linea di confine tra Ferrara, Modena e Bologna, ciuinga o cicles
3) di una marca che entrambi non ricordavamo.
(“Pa’, ma ti pare che mi ricordo la marca di un CG?”). Questa affermazione mi ha fatto talmente pensare che dopo un po’ mi fa “guarda che devi girare lì, eh”. Ero in trance. Mia figlia mi vuole bene lo stesso, credo, ed è sicuramente abituata.
Il CG è un prodotto incredibile dal punto di vista del marketing: uno studio di laboratorio pagato dai clienti, un sopravvissuto di un’altra epoca. Quanti prodotti superflui di largo consumo venduti negli anni 70 sono ancora in commercio? Forse solo la Coca-Cola e i CG – e tra i due ho sempre visto molte analogie: fondamentalmente superflui, indistinguibili dalla concorrenza, costo vivo/valore intrinseco bassissimo/alti margini, acquisto per esposizione allo stimolo e non per riflessione: per tutti i precedenti motivi nel tempo i brand di gomme e cola si sono evoluti in super potenze pubblicitarie e imperi distributivi che giocano a Risiko con i bar e i supermercati. Essere al posto giusto, nel momento giusto, con un nome familiare: è tutto ciò che serve. Anche se detto così sembra più facile di ciò che è davvero.
Il CG è un prodotto eternamente in cerca di un uso, in cerca di pseudo-problemi da risolvere, che quanto di più difficile un marketer possa trovarsi ad affrontare nella propria carriera.
Un vecchio trucco del marketing è cercare di suggerirci che un prodotto può servire anche ad altro rispetto a quello per cui lo acquistiamo. Così ne compriamo di più, ovviamente. Raramente però come compratori gli diamo ascolto: ricordo un Gran Soleil come sorbetto che non voleva nessuno, e loro dai dai che “fa anche digerire!” e invece niente. Le persone fanno sempre un po’ quello che vogliono, sperimentano. Se glielo dice il marketing che l’aceto da tre centesimi al litro è buono per scrostare dal calcare le bottiglie dell’acqua e il box doccia, non ci credono (per quelli dell’aceto sarebbe peraltro imbarazzante consigliare un uso detergente a qualcosa che dovrebbe essere teoricamente ingerito con l’insalata). Ma se glielo dice il forum o una delle innumerevoli influencer post-casalinghe su Instagram, zac, il trucco diventa virale. E chi vende l’aceto da tre centesimi al litro non si spiega perché il prodotto vada così bene sullo scaffale, senza nemmeno pubblicare foto di ricette o usare una cuoca influencer.
Il CG può servire da ricordo personalizzato da attaccare sotto ai banchi o come piccole riparazioni di bricolage, ma difficilmente questo può risollevare i fatturati. E allora il marketer lo propone per l’alito cattivo, per i denti puliti (sapendo che è un palliativo ridicolo contro la placca, ma ehi, dobbiamo venderle ‘ste tonnellate di gomma avvolte nella carta. “Proviamo con la mitica e misteriosa Associazione Dentisti Italiani e chiamiamolo Protex!”), sorriso più bianco, effetto istantaneo ecc. oppure per tranquillizzarsi - ma senza dirmi che devo stare tranquillo, ai gusti più strani (anguria, al gusto di acqua, pesca, al gusto bigbabol).
Più spesso, lo storytelling si sviluppa in script in cui l’incredulità viene sospesa in un viaggio simil-allucinogeno, in cui la gomma oggetto magico ti consente di fare cose da super eroe. Apri la bocca e – può succedere, letteralmente, qualunque cosa. Il paradosso della creatività: per farti notare devi essere talmente creativo da rischiare di far dimenticare il prodotto in vendita, cosa che succede regolarmente. (Mia figlia è testimone)
Il problema dei prodotti che non servono realmente davvero a nulla come le gomme da masticare è appunto che devono farsi ricordare a tutti i costi. Altro che funnel di vendita, le gomme hanno circa cinque secondi di tempo: il mercato è dominato da un’unica azienda, che ha il predominio assoluto degli scaffali di bar e supermercati. E che le vendite dipendono più dalla moda che dalla pubblicità: come spesso accade, la pubblicità funziona più per ricordarci ciò che vogliamo, rispetto a farci cambiare idea su ciò che non vogliamo.
Non so se esisteranno ancora CG tra dieci anni: è in pratica pura plastica, non è riciclabile, e inquina, in effetti. L’uso nella gen Z è molto limitato, un po’ da tamarri, è cringe. Nel 2020 il calo è stato del 14% (in casa non mastichiamo gomme) ma era iniziato molto prima: nemmeno gli influencer assoldati hanno cambiato il trend. Ci rimarrà solo la creatività lisergica dei loro spot degli anni zero (come cantava Vasco Brondi: la fine della mia gioventù, forse resterà per l'eternità su YouTube), e scaffali che offriranno veloci dipendenze e nuovi acquisti di impulso.
Tre link veloci
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È uscito un podcast di Radio 24 sulla storia di internet in Italia – mi ha fatto sentire un po’ anziano: io ho parlato di aziende, blog e altro.
Un altro podcast a cui ho partecipato in due puntate è quello di Registro .it: si parla di tecnologia nell’era post covid, e di PMI.
Ci si legge la prossima settimana, forse
gluca xxx