Ogni nome scelto rappresenta un'immagine ben definita che racchiude in sé una storia oppure un destino. Per questo motivo la scelta di un nome, che sia di persona, di un servizio pubblico o di un prodotto industriale, è il frutto di un'operazione strategica di marketing che prende in considerazione sia la qualità dell'oggetto da denominare, sia il possibile utilizzo nel contesto stabilito. Nella dominazione industriale si deve agire sempre in modo tale da creare un'immagine che sia aderente al prodotto e che si presti ad essere utilizzata facilmente ed efficacemente nella campagna pubblicitaria.
I primati di una campagna pubblicitaria, infatti, passano anche attraverso l'individuazione e l'identificazione di un nome che sia "vincente". Tale scelta è una delle principali variabili che definiscono una strategia di marca.
Sarà infatti il nome a costruire la storia stessa di un prodotto e della sua azienda e a definirne il posizionamento nel mercato e l'eventuale business. La ricerca del nome deve essere studiata e analizzata, in modo specifico, quando ci si trova in presenza di aziende multinazionali o con una serie di prodotti e servizi venduti in diversi mercati geografici.
Indipendentemente dalla lingua, il nome dovrà essere quindi di facile pronuncia e di chiaro significato, così da non generare equivoci e rispettare caratteristiche sociali e culturali del luogo di vendita. (Wikipedia)
Quello che Wikipedia non sa è che il marketer in genere si sente sottovalutato. In azienda, nella società. Pensa di essere il creatore di posti di lavoro, di benessere, e invece viene preso in giro sui social (“ahah io non ci casco al trucco del buco più largo nella bottiglia di shampoo!” ndr: è una leggenda metropolitana), o confuso con quelli che fanno ridere su Facebook per avere tanti like. Un po’ come il pubblicitario, che però soffre ancora di più perché ha un ego molto più grande, in media, e non si capacita di come il suo ruolo nel cambiamento in meglio della società non venga riconosciuto dai più. Quando le cose vanno male, il marketer è il primo a essere eliminato, quando vanno bene invece il merito è del prodotto vincente, o della visione dell’imprenditore. Tiene famiglia, il marketer.
Per consolarsi e riaffermarsi, il marketer si riserva dei piccoli territori esclusivi. Delle enclave ben difese, anche se in realtà irrilevanti. Una di queste spesso è il naming.
Il naming è una delle attività più sopravvalutate e costose, spesso senza un ritorno dell’investimento, che non viene nemmeno misurato a spanne. Il re-branding, poi, è spesso dannoso e basta.
C’è un giro d’affari impressionante dietro al naming: agenzie e studi, spesso associati al branding e ai loghi. Sì, perché il naming è qualcosa che segna il destino, nel bene e nel male, di un prodotto o di un marchio. Almeno, così recita la teoria, e gli studi, spesso commissionati dalle stesse agenzie. Per esempio, potreste essere interessati alla diversa e migliore percezione dei nomi “femminili” vs quelli maschili, e dei tentativi di ibridazioni gender come Ford Fiesta.
Ma infatti, chi mai chiamerebbe un social network con un nome così banale e didascalico come Facebook? Una azienda che ha fatto la storia dell’informatica non si può infatti chiamare IBM, contrazione di un International Business Machines che da solo farebbe affossare qualunque possibilità di successo. E mica vorrai chiamare uno dei maggiori successi del food italiano con un cognome come farebbe un piccolo imprenditore della bassa mantovana? E chiameresti mai con il nome di un uccello una marca di saponi e cosmesi femminile? E una bibita, la chiami Tassoni? Eddai. E non puoi chiamare in Italia, C-o-l-g-a-t-e se vuoi che il tuo un dentifricio sia il più venduto. Non, evidentemente, con un nome che sembra una frazione di Milano.
Sembra che il passaggio dal nome Supermarket a Esselunga sia dovuto ad un'intuizione di Caprotti che scelse di assecondare un'abitudine rilevata sul target. Le casalinghe di allora (sì, negli anni 60 ne esistevano, e tante) per indicare il punto vendita dicevano “quello con la esse lunga”. (qui)
Caprotti non ha incaricato un’agenzia. E questo ha naturalmente affossato la competitività di Esselunga, giusto?
Il problema (o il vantaggio) è che post-razionalizziamo e/o non ci facciamo più caso a qualunque brand, ex post. Il nome è un segnaposto per qualcosa. Un Pippo qualsiasi. Chi ha successo diventa automaticamente possessore di un nome bello o almeno orecchiabile (quanto meno perché se ha avuto successo, non ci facciamo più nemmeno caso), chi non ha successo… be’ chi se ne frega di quelli, fuori dallo storytelling. Un po’ come i bambini, i cui nomi brutti diventano “particolari”, basta che i soggetti in questione studino e si comportino all’altezza delle aspettative.
A volte diamo nomi e non dovremmo: è il caso del settore b2b. Il nuovo bullone viene chiamato Gold Wing Premium 2300A. E così non si riesce a trovare su google.
Sapete qual è il punto? È che l’hubris del marketing ci tiene a battezzare, per lasciare una traccia del proprio passaggio, ma poi vede il baratro del pericolo della sorte, e affida la patata bollente alle agenzie: più costose meglio è. Nessuno è mai stato licenziato per aver affidato il naming alla grande agenzia internazionale. Idem il rebranding: questo è causa quasi sempre di gravi danni al fatturato nel breve-medio termine. Compriamo ciò che ricordiamo, lo sapete no? E la gente ci ricorda molto meno di quanto pensiamo. Il rebranding, salvo casi imbarazzanti, è un danno sicuro versus un guadagno ipotetico (salvo per l’hubris del marketing e dell’agenzia incaricata).
Quindi, rilassatevi: il nome non ha tutta questa importanza. (Declinazione per il marketing insegnato dai negozianti: non dovete per forza fare una battuta o aggiungere “Non solo…”).
La controprova? Widiba. Che diavolo di nome è Widiba? Poi con la W, che circa il 30% degli italiani non sa nemmeno dove sia nella tastiera. Widiba nasce da una di quelle cose che si facevano anni fa: “dare il potere ai blogger”, le conversazioni dal basso, i mulini che vorremmo, ecc. Come oggi far disegnare una tangenziale a Luis Sal.
“Diteci voi blogger, utenti connessi, sapienti della Rete: come vorreste il nome di questa nuova banca?!”
“Widiba!”
“Ah, bene. (pausa e sguardo perso del dir mktg) e che significa?”
“È l’acronimo di Wise Dialog Banking”
(il responsabile mktg pensò di essere in un film dei Monty Python, ma ormai era fatta, il CEO aveva preso l’impegno con la Rete, e così fu. D’altra parte, aveva scelto la Rete)
Eppure pare che Widiba sia oggi l’unica cosa salvabile del Montepaschi.
Link
Alcune mie interviste a manager sul rapporto tra marketing, dati e cliente
La mia bibliografia del marketing, sul blog Digital Update.
Perché le auto elettriche esistevano già un secolo fa, e cosa possiamo capire dal loro fallimento
Alla prossima settimana,
gluca