Per chi non c’era negli anni precedenti: le Summer Edition sono edizioni quasi sempre brevi, poco didattiche e in molti casi egoriferite, in cui le rubriche e i quiz compaiono a muzzo o non compaiono proprio. Se la leggi e non ti piace, basta tenere d’occhio l’emoji estiva prima di aprirla o no, oppure puoi aggiornare le tue preferenze per tornare a leggere più avanti (ahah no, non c’è questa opzione, devi arrangiarti). Insomma fai come ti pare.
Questa edizione estiva è a pensierini, come quando alle elementari invece di fare un concept album (il tema) la maestra ti concedeva invece di fare una compilation delle cose che ti venivano in mente.
Come scrive qualcuno: puoi ascoltare questa newsletter con il sottofondo jugopop selezionato da me.
La grande stanchezza
Leggiucchiando qua e là i social da Pag (non quella parte di Pag, quella per indigeni e tedeschi di mezz’età) è circolato abbastanza nella bolla dei lettori del Post (pericolosamente coincidente con la mia) un articolo su come chi scrive newsletter sia stanco, con tanto di liste di gente che ha mollato e ora fa altro, che fa un po’ il paio con la sbandierata stanchezza dei creator, che fa il paio con quella delle persone in genere – figuratevi chi non prende ferie dal covid in poi e lavora in una corsia di ospedale. La stanchezza è dovuta al lavoro necessario a gestire una newsletter, in cui per essere all’altezza serve cercare fonti, idee, scrivere, correggere, promuovere, ecc. ecc. Molto spesso leggo dei post di creator su Instagram in cui si spiega (immagino al potenziale cliente) che “quello che vedi è solo la punta dell’iceberg”, cercando così di valorizzare la quantità del proprio lavoro per alzare il prezzo al cliente, che non fa mai male come bias a supporto. Peccato che al cliente (o al lettore) non freghi un burek di quanto ci hai lavorato tu, conta quanto ne viene a lui (prima legge del valore, marketing 1, università).
“Avere un newsletter è un lavoro”, salvo che non lo è, e non lo sarà mai, almeno in Italia. Mi ricorda molto la ondata di articoli su come “vivere con un blog” di dieci, forse quindici anni fa. La scrittura è da sempre antieconomica: ci vuole un sacco per produrla, e la gente si stanca presto di leggere (una delle lamentele ricorrenti nei commenti al Post era “queste newsletter sono troppo lunghe”). Pensate a quel povero giornalista che ha lasciato l’impiego e si sforza di fare una newsletter da ventimila battute, forse influenzato dall’assurdo metodo di pagamento a battute usato nell’editoria, e ne scrive full time magari un paio a settimana, il tutto per giustificare un abbonamento che non arriverà. Il valore non è nel numero di battute, ribadisco.
Che l’editoria online non sia un settore dove non solo non si fanno i soldi, ma nemmeno si porta a casa la pagnotta è una mia fissazione da sempre. Repubblica mi ha appena dato un anno di abbonamento a ventiquattro euro (venti-quattro!). Quanto può valere una newsletter? Che possibilità ha un creator di farsi pagare i contenuti di una newsletter e viverci? Tende a zero. Eh, ma direte voi, anche con le offerte spontanee? Zero virgola zero. Ma perché allora grandi gruppi investono in editoria? La risposta è dentro di voi, ed è corretta.
Quindi, perché lo si fa, il tenere una newsletter settimanale? Fondamentalmente, parlo per me, perché:
scrivere è come andare di corpo, se non lo fai non stai bene, lo fai per te non per gli altri
il lavoro di ricerca lo faresti comunque, perché è il tuo lavoro (vero), e gli appunti sono sempre pronti per essere presi (no, non un taccuino, ma qualcosa di simile)
è un mezzo di autopromozione, che porta a relazioni tangibili
scrivo velocemente da sempre, il che mi porta a non usare più di un paio di ore a settimana (in sostituzione della pennichella, per esempio, qui a Pag)
non mi interessano più di tanto i risultati in termini di iscritti (vedi primo punto)
non sono terrorizzato da typo e altre imperfezioni estetiche
Se tutte queste cose non sono verificate, ci si stanca di scrivere una newsletter: è inevitabile.
Libri da ombrellone e no
Ho appena finito I Provinciali (libro pazzesco, che una di voi mi ha consigliato, e non ricordo chi, grazie). Tra Verga e Franzen, a occhio e croce.
Sono passato a The Storygraph, perché Goodreader mi metteva tristezza ormai, con quell’interfaccia datata e i suoi commentatori ossessivi e logorroici. Mi trovate al solito come gluca, ma al momento bisogna cercare manualmente gli amici 🤷🏼♂️.
Ho iniziato un libercolo di marketing, pure: 1 Page Marketing Plan. Io e i libri di marketing abbiamo lo stesso rapporto che un’attempata signora ha con i romanzi Harmony viola: difficile che ci trovi qualcosa che non ha già letto o vissuto, la trama è scontata, sai il finale, ma li leggi lo stesso, per vezzo. Questo libro, sia pure nella lunghezza e ripetizione tipica del business handbook made in USA, tutto sommato non è male: dovrebbe essere adottato ai corsi per piccole attività commerciali, tradotto in italiano, ovviamente. C’è pure – te pareva - un canvas. Un punto me lo sono segnato per tornarci sopra: copiare una strategia o una tattica di marketing quando la differenza di investimento è superiore a 10X è una garanzia di fallimento. Esempio: siccome grande azienda fa spot, anche io piccolo, di nicchia, scappato di casa, faccio spot pure io che c’ho tre kune in croce. Oppure: se grande azienda ha un blog, significa che funziona, e lo faccio pure io. Eccetera.
Negozianti estivi spottati da voi
Qui Assisi, di monache imprenditrici (di Paolo P.)
Io l’avrei chiamato Deliveroooh, visto che c’è la consegna anche in hotel (Rimini, di Sara P.)
Per chiudere, visto che mi sono dilungato (cvd)
Rimangono fuori alcuni argomenti, magari la prossima settimana ci ritorno:
perché le porzioni dalmatiche sono così grosse
perché qui la birra da 0.5 costa quasi come quella da 0.3
perché in qualunque posto vai esiste un articolo di un blog con “le dieci spiagge da vedere a”, creato nella speranza che qualcuno ringraziasse tangibilmente in qualche modo il creator (qui è stato creato da Costa Crociere: non mi avrete mai, ma grazie della guida gratis)
come e quando è successo che questa ca**o di lavanda è diventata tipica ovunque
in ogni cultura nazionale musicale esiste un Biagio Antonacci, un Modena City Ramblers, un Mengoni, una Giorgia. È un algoritmo naturale a selezionarli.
Vado a documentare la spiaggia di Novalja, vi ho voluto bene
gluca
(Hvala a Daniela per la revisione)